di Nathan Greppi
In un’intervista rilasciata il 3 ottobre 2008 al quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, il già Presidente della Repubblica Francesco Cossiga accusò lo Stato italiano di aver permesso, il 9 ottobre 1982, ai terroristi palestinesi di agire indisturbati per colpire il Tempio Maggiore di Roma, in un attentato che causò la morte del bimbo di due anni Stefano Gaj Tachè e 37 feriti.
Oggi è stato dimostrato che la sua accusa era fondata, grazie ad un’inchiesta del quotidiano Il Riformista che ha messo le mani su dei documenti che provano la complicità del governo italiano di allora. (Mosaico ne aveva parlato già nel 2012).
Stando a Cossiga, l’Italia avrebbe permesso al terrorismo palestinese di colpire obiettivi ebraici sul territorio italiano, in seno al “lodo Moro”. “In cambio di una ‘mano libera’ in Italia, i palestinesi hanno assicurato la sicurezza del nostro Stato e di obiettivi italiani al di fuori del Paese da attentati terroristici. Fintanto che tali obiettivi non collaborassero con il sionismo e con lo Stato d’Israele”. L’ex-presidente aggiunse testualmente, rivolgendosi agli ebrei italiani: “Vi abbiamo venduto”.
Stando ai documenti citati nell’inchiesta, firmata da David Romoli, la possibilità di un attentato contro la sinagoga era stata segnalata più volte dal SISDe, come si chiamavano allora i servizi segreti per la sicurezza interna, a partire dal 18 giugno 1982. Quel giorno, il direttore del SISDe Emanuele De Francesco inviò un messaggio urgente alla polizia, ai carabinieri, alla Guardia di Finanza e al Sismi intitolato Probabili attentati contro obiettivi israeliani o ebraici in Europa. Il testo diceva: “Fonte solitamente attendibile ha riferito che i palestinesi residenti in Europa avrebbero ricevuto l’ordine di prepararsi a compiere una serie di attentati contro obiettivi israeliani o ebraici europei”. Ciò neanche due settimane dopo l’inizio dell’Operazione Pace in Galilea, con il quale l’esercito israeliano iniziò a colpire le basi palestinesi in Libano.
Sempre il SISDe inviò il 27 giugno un “appunto riservato”, secondo il quale gruppi di studenti palestinesi “avrebbero in animo” attacchi contro obiettivi ebraici a Roma. In testa alla lista dei possibili obiettivi c’era proprio la Sinagoga. In un altro appunto del 27 agosto 1982, si afferma chiaramente che l’offensiva terroristica è in fase di ripresa ma che “l’atteggiamento dei fedayn verso l’Italia potrebbe non rivelarsi ostile nel caso di un sollecito riconoscimento dell’O.L.P. e della causa del popolo palestinese”. Veniva riportato come due organizzazioni interne all’OLP, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e il Fronte Democratico Popolare per la Liberazione della Palestina, stavano facendo entrare clandestinamente i loro commando in Europa.
In tutto, dal 18 giugno al 9 ottobre, furono inviate 16 segnalazioni di possibili attentati in Italia, di cui l’ultima il 2 ottobre, una settimana esatta prima dell’attacco alla Sinagoga. In tre di queste, essa era esplicitamente indicata come un obiettivo. La più esplicita è del 25 settembre, spedita anche al Ministero dell’Interno. Il SISDe affermava che una “fonte abitualmente attendibile” aveva segnalato la possibilità di attacchi del gruppo terroristico palestinese guidato da Abu Nidal “prima, durante o subito dopo lo Yom Kippur, che quest’anno cadrà il 27 settembre”. Tra l’altro, anche dall’ambasciata israeliana era arrivato negli stessi mesi un avvertimento specifico: essendo troppo difficile colpire obiettivi israeliani, i palestinesi intendevano prendere di mira gli ebrei nella diaspora.
Nonostante gli avvertimenti, la sinagoga non venne presidiata. Non solo non aumentarono la sorveglianza, ma il 9 ottobre non era presente neppure la macchina della polizia che stazionava lì nelle occasioni più importanti. La sorveglianza sulla sinagoga e sul ghetto era stata predisposta solo dalle 19 di sera alle 7 della mattina seguente. E le indagini avviate subito dopo l’attacco non furono particolarmente stringenti, tanto che non portarono risultati. “Fui interrogato non al commissariato ma a una specie di postazione mobile. Mi fecero qualche domanda generica e mi lasciarono andare”, racconta uno dei testimoni, Leonardo Piperno, che aveva visto arrivare due degli attentatori in moto ed è a tutt’oggi convinto, come anche l’allora giudice Rosario Priore, che non tutti i terroristi fossero palestinesi.
Stando alle ricostruzioni della polizia, il commando era composto da 5 persone, 4 delle quali rimaste sconosciute. Il quinto attentatore, Abdel Osama al-Zomar, era stato presidente dell’Associazione studenti palestinesi in Italia, e venne arrestato un anno dopo al confine tra Turchia e Grecia, con un carico di 60 chili di tritolo. La sua ex compagna italiana, Anna Spedicato, disse che l’uomo le aveva confessato di essere l’organizzatore dell’attentato. L’Italia chiese l’estradizione e venne subito scarcerato dalla Grecia. È stato condannato in contumacia nel 1991.
L’On. Emanuele Fiano, che ha preannunciato una interrogazione parlamentare sul tema, ha scritto una lettera aperta a Repubblica, dal titolo Il dovere delle risposte.
“Gentile Direttore, gli ebrei romani furono lasciati soli; il nove ottobre del 1982, la mattina della strage alla Sinagoga di Roma, nella quale fu ucciso Stefano Tachè di due anni, e 37 persone vennero ferite, gli ebrei romani, anzi italiani, vennero scientemente lasciati soli.
Non saprei descrivere con parole più semplici e chiare, quello che emerge in queste ore dai documenti conservati sin qui presso l’Archivio di Stato e pubblicati da Il Riformista. Quel giorno la Sinagoga fu lasciata sguarnita da qualsiasi presidio delle forze dell’ordine, ma non è solo questo il punto più doloroso e con più implicazioni rispetto alla storia di questo paese e delle sue istituzioni. La verità sanguinosa che emerge dalle carte pubblicate, è che 17 furono le segnalazioni inviate dal Sisde a partire dal giugno del 1982 alle forze di polizia, avvisandole del rischio concreto di possibili attentati contro obiettivi israeliani in Italia, ma anche contro sinagoghe. Di più, le indagini sull’unico responsabile dell’attentato condannato seppur in contumacia, Osama Abdel Al Zomar, confermano che lo stesso era sicuramente conosciuto e, come si dice in questi casi, attenzionato. Ma gli ebrei romani vennero lasciati soli quella mattina, in balia di criminali attentatori palestinesi. Perché direttore? Come fu possibile questo crimine dell’abbandono della più antica Comunità ebraica della diaspora da parte dello Stato italiano, odioso forse quanto la violenza delle bombe palestinesi di fronte alla Sinagoga? Ci fu uno scambio tra terroristi palestinesi e strutture dello Stato sulla pelle degli ebrei romani? Ora lo Stato ed il Parlamento non possono fermarsi. Ora serve chiarire ogni aspetto di questa vicenda. Serve che se ne occupi l’organo parlamentare chiamato a sorvegliare il funzionamento degli apparati di sicurezza del nostro Paese, con poteri speciali che altri organi parlamentari non hanno, che può chiamare a testimoniare chi fu protagonista di quella stagione e che è ancora in vita, che può chiedere ai vertici del governo la desecretazione di altre carte. Cosa c’era dietro il cosiddetto Lodo Moro, e cioè un accordo tra governo italiano e formazioni terroristiche palestinesi che si sarebbe stipulato verso l’inizio degli anni ‘70 per il quale si suppone che si sia consentito alle stesse di transitare dal nostro paese e di avere attività logistiche in cambio della esclusione degli obiettivi italiani dal novero degli attentati palestinesi; perché gli avvisi del Sisde non vennero presi in considerazione, e neanche le segnalazioni della Comunità ebraica? Il Comitato Parlamentare per la sicurezza della Repubblica, Copasir, apra un’inchiesta specifica, faccia luce, dia risposte, lo dobbiamo a Stefano Tachè, bambino italiano ucciso a due anni in quanto ebreo, e a tutta la Comunità Ebraica italiana che scopre oggi di essere stata lasciata sola, da qualcuno, scientemente, di fronte agli assassini”.