di Daniel Fishman
Arrivando in Vicolo Salomone Olper, a Casale Monferrato, è probabile che vi imbattiate nella barba, con annesso l’immancabile basco, di Elio Carmi; nella custode albanese (“siamo stati gli unici a proteggere veramente gli ebrei durante la Guerra”), nella meticolosa segretaria (non ebrea), pignola più degli ebrei; o ancora in Adriana Ottolenghi che comanda una piccola squadra di agguerriti volontari che l’aiutano a far fronte a 18.000 visitatori all’anno.
Il numero qui citato è quello della quantità di persone che transitano in sinagoga e nei due musei ebraici o che partecipa a Oyoyoy!, l’ormai tradizionale e prestigioso Festival Internazionale di cultura ebraica.
Ma su Casale Monferrato c’è molto da dire e da spiegare. E’ una delle più piccole comunità ebraiche italiane, la cui vivacità, iperattività, visibilità e il cui metabolismo, in moto perpetuo, potrebbe far pensare ad una kehillà di dimensioni ben più grandi. E invece stiamo parlando in realtà di un numero di sette ebrei, (sì, avete capito bene, sette!), stabilmente residenti, di 50 iscritti e di un nucleo di amici, ex casalesi e no, simpatizzanti e volontari che vanno e vengono, e che è molto più ampio. Solo così si riesce a far fronte alla generale domanda di approfondimento che ebrei e goym piemontesi chiedono e che questa città audacemente propone. “Se pensiamo che Casale non è città che fa provincia, che i treni ci arrivano male, che c’è stato l’amianto dell’Eternit e che da un punto di vista turistico la gente preferisce andare più sui colli a bere Barbera e Grignolino che a venire in città, il risultato non è di poco conto”, spiega il Presidente Giorgio Ottolenghi, che la moglie e gli altri membri della Comunità chiamano scherzosamente il “dittatore”, essendo in carica senza soluzione di continuità da ben 50 anni.
I caldi locali comunitari, e la calorosa atmosfera del Museo dei Lumi e del Museo degli Argenti, contrastano con il freddo degli altri spazi, muri originali del 1300 e tutte le conseguenze di freddo, umidità e infiltrazioni. Ci spiega il direttore del Museo, l’architetto Giulio Bourbon, che “erano stati stanziati finanziamenti per alcuni restauri ma poi, con il terremoto dell’Aquila, abbiamo visto sparire quanto promesso. Siamo ovviamente alla ricerca di chi ci possa aiutare a far fronte ai nostri bisogni”. Se chiedete in città, tutti si diranno fieri del loro piccolo gioiello, la sinagoga (il luogo più visitato di tutto l’Alessandrino). Costruita in epoca di restrizioni per gli ebrei, non poteva risultare visibile dall’esterno. Per questa ragione, riserva tutta la sua bellezza e magnificenza all’interno. Con tanti oggetti sorprendenti che la paziente Adriana, o uno dei volontari, vi racconterà con dovuta calma ed attenzione, guidandovi alla sua scoperta.
Un grande studioso olandese contemporaneo del gioco del trinchetto (che è una specie di tennis risalente al 1300), ha viaggiato fino a qui per studiare la Sinagoga. “E così, tre anni fa, anche io ho fatto una scoperta”, racconta Adriana. “Questo luogo era originariamente sede di questo antico sport, il trinchetto”.
Una troppo accurata descrizione dei luoghi, così come la citazione dei tanti pezzi pregiati e curiosi conservati nei musei, rischierebbe forse di togliere la sorpresa e il gusto di una visita e richiederebbe quasi lo stesso tempo che ci vuole per andare in macchina a Casale, partendo da Milano o Torino. Pertanto invitiamo i lettori a fare una capatina in loco, magari visitando anche il cimitero ebraico di Casale o qualcuna delle altre comunità ebraiche piemontesi presenti un tempo da queste parti.
Questa visita dà però spunto per qualche osservazione di sociologia ebraica sul “modello casalese”. Su questo punto mi trovo concorde con la torinese Claudia De Benedetti, vice-presidente dellUCEI, una delle persone più attive, da anni, in questa Comunità. C’è stata la fase degli anni Ottanta-Novanta, nella quale è sembrata prevalere, nel mondo ebraico italiano, una impostazione museale, ovvero la tendenza a trasformare le Comunità in “Musei del passato ebraico”, e nella quale le sedi storiche e gli oggetti ebraici venivano esposti e spiegati separandoli dalla vita ebraica di oggi. In questi musei e nelle guide ebraiche relative, gli ebrei in carne ed ossa non erano mai ritratti e fotografati e qualsiasi citazione riguardante la pratica religiosa o la realizzazione concreta e sionista di Israele erano argomenti tabù, e come tali non trattati.
A fronte di questo “ebraismo in naftalina” del bel tempo che fu, vi è poi stata una corretta reazione che, partendo da una linea di valorizzazione dell’“ebraismo vivo”, si è però poi estremizzata proponendone, soprattutto nelle grandi Comunità, una versione all’insegna del -meglio pochi ma buoni-. De facto, sviluppando politiche che avessero senso solo per le persone già fortemente impegnate o orto-pratiche, tralasciando tutti gli altri. È così che tanti si sono sentiti esclusi e che tanti ebrei si sono a poco a poco “evaporati”.
È nella straordinaria attività di Casale che si trova invece una interessante sfida e riflessione (la parola “risposta” sarebbe una definizione esagerata), sul valore che può avere ogni singolo ebreo o anche un non ebreo che sia interessato alle nostre cose. La creazione di un humus di attività ebraiche di svariato tipo, predisposto con una intensità e regolarità impressionante (vedi sul sito www.casalebraica.org le pagine dei musei o www.oyoyoy.it/) ha fatto sì che in questi anni tantissima gente si sia riavvicinata alla Comunità e che, più in generale, si sia creata una sensibilità o una conoscenza delle cose ebraiche anche tra i non ebrei, assolutamente degna di attenzione.
Se andate all’InfoPoint comunale e turistico, capirete con quale orgoglio i casalesi parlano della loro Comunità ebraica. Così, l’accensione pubblica della tradizionale Chanukkià diventa la speciale occasione per presentare le nuove acquisizioni annuali di Chanukkiot artistiche provenienti da tutto il mondo (parliamo anche di artisti di fama acclarata), ma anche un momento di dialogo e di accensione di una luce di confronto tra le tre religioni monoteiste. Quanto basta per capire come, anche con un manipolo di pochi ebrei, si possa creare valore in termini di identità ebraica e di dialogo con il mondo circostante; ma a patto che ci sia un progetto lungimirante, aperto ed inclusivo. Se poi, come avvenuto quest’anno, la collezione delle Chanukkiot comincia ad essere richiesta ed esposta in maniera itinerante al Museo di Parigi e a quello di Gerona in Spagna, significa che la minuscola Casale sta dando un suo contributo unico ed originale alla creazione di un ebraismo contemporaneo. Qualcuno potrà far notare che in fondo (al momento), è solo a Kippur che c’è regolare funzione (100 persone). Ma chi come me preferisce vedere il bicchiere mezzo pieno, non riesce a rimanere indifferente quando si accorge che comunque tutta questa attività ebraica e queste migliaia di visitatori siano “sano concime”, in grado di creare in qualche maniera un potenziale di attrazione per nuovi nuclei e nuove attività.
“È proprio così” afferma con convinzione Claudia De Benedetti. “Sono arrivate da poco due famiglie ebraiche, numerosissime, che abitano qui vicino, a Valenza. E altri, nel passare da noi, riscoprono le loro origini dimenticate”. “Di fatto”, aggiunge Elio Carmi che del Festival Oyoyoy.it è uno degli artefici, “una Comunità di poche persone è per forza di cose obbligata ad impegnarsi full time per la kehillà (Carmi è di turno volontario ogni domenica, ndr), per potere reggere una domanda di ebraismo che è assolutamente straordinaria. Certo, siamo noi stessi a stimolarla, ma mi creda tutto ci ritorna in maniera esponenziale”.
Vercelli e Biella
Una riprova di quanto sia importante curare queste piccole “scintille” di vita ebraica, mi viene dato nel pomeriggio. Decido casualmente, prima di tornare a Milano, di fare tappa con la famiglia a Vercelli. Per me, calciofilo di razza, è la città delle Casacche Biacche della Pro (i nerostellati del Casale hanno vinto lo scudetto del campionato 1913-1914. www.casalebraica.org). Durante lo struscio domenicale, mi accorgo che Halloween è una festa molto sentita qui a Vercelli e che le vetrine griffate hanno prezzi da via Montenapoleone. In via Elia Emanuel Foa, cuore dell’antico ghetto, mi imbatto nella sinagoga, che mai avrei immaginato aperta. Sono invece appena finiti i restauri, e sono in corso le visite guidate. Mentre una valente guida spiega la storia di questa imponente struttura (architettonica assimilazionista con cupolone, pulpito e organo, simbolo della tipica grandeur post emancipazione), contemporaneamente noto un giovane ebreo che non conosco mentre sale sulla Tevà e legge un Salmo.E mentre la guida prosegue con le spiegazioni, un vecchio iscritto della Comunità approfitta di questa apertura domenicale per recitare ad alta voce uno Shemà Israel, rubato all’attimo fuggente e scaturito dal cuore. Sono episodi che mi commuovono, a testimonianza della volontà di singoli o di piccoli nuclei di “tenere acceso il fuoco”. Decido allora di mettermi in contatto con la Presidente della Comunità di Vercelli, Rossella Bottini Treves, che mi testimonia come “in realtà qui da noi stanno succedendo anche altre cose. Abbiamo completato il restauro della sinagoga di Biella (visite guidate ogni seconda domenica del mese), dove vogliamo di nuovo tenere delle funzioni religiose. E proprio domani verranno Amedeo Spagnoletto e Rav Elia Richetti per valutare come restaurare due preziosi Sifrè’i Torà di fattura askenazita e provenienza provenzale, antecedenti al ‘500. Nella Sala del Collegio Foa (scuole superiori ebraiche e rabbiniche, istituite nel 1829), vi è una splendida sala ottocentesca affrescata dove da parecchi anni si tengono attività culturali, lezioni di filosofia e Torà, mentre in sinagoga si svolgono concerti di musica ebraica”. Rav Alberto Someck, che il 20 novembre scorso, insieme a Rav Richetti, ha presentato un volume sulle iscrizioni del Tempio di Vercelli, mi testimonia però anche la pessima acustica di questa sinagoga. La cosa non sembra turbare i visitatori che sono intorno ad un Aron con una interessante porta dorata, e che osservano dei tessuti (recuperati) che coprono i Sifrè Torah (non esposti). La quantità di informazioni che i visitatori richiedono mette in difficoltà la guida, che deve invece contingentare il suo tempo perché altre tornate di ospiti aspettano fuori (visite ogni domenica del mese). Un tè nel bar davanti alla Sinagoga mi rifocilla. Dalla vetrina scorgo una suora che si ferma davanti alla Sinagoga. Entrerà anche lei? Aspetto. Sì, è entrata.