di Fiona Diwan e Miriam Bendayan
Tsvi Nussbaum aveva sette anni quando nella fredda Varsavia l’orrore dell’odio nazista travolse lui e la sua famiglia: il suo volto attonito e spaventato, le mani alzate e nello sguardo lo stesso terrore di un milione e mezzo di piccoli ebrei.
Un’immagine che è diventata un’icona, un simbolo per rappresentare universalmente la tragedia della Shoah e la violenza contro i più innocenti: anche se non si trattasse del piccolo Tsvi quello è ormai per tutti “il bambino del ghetto”.
Proprio per questo il 24 dicembre 1999 Ernesto Galli Della Loggia, (ordinario di storia contemporanea, oggi professore all’Istituto italiano di Scienze Umane di Firenze e Napoli con incarichi anche all’Università del San Raffaele), dalle pagine de Il Corriere della Sera, di allora propose di appendere questa foto in ogni aula scolastica. “Un simbolo ammonitore contro tutte le atrocità, le sopraffazioni, contro tutti i fanatismi costruiti sul disprezzo della vita”, spiegava Galli della Loggia, aggiungendo che l’ immagine del bambino ebreo “sarebbe piu’ istruttiva di mille parole, di mille discorsi”.
L’iniziativa raccolse subito l’adesione dell’allora Ministro per la Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer e della Canon: vennero realizzate, con il Corriere della Sera, le riproduzioni della fotografia che venne spedita a chiunque l’avesse richiesta. Moltissime scuole, associazioni e privati ne fecero domanda. Seimila richieste in tutto.
L’iniziativa fu accolta con favore anche dall’allora presidente Ucei Amos Luzzato, che mise però in guardia su una possibile banalizzazione dell’immagine: “La foto, commentò Luzzatto, incarna perfettamente quello che è stato e che non vorremmo che sia. Speriamo che l’idea sia accolta. Con l’intento che non diventi una specie di santino, ma che sia di monito e di insegnamento contro l’ intolleranza e il razzismo»
Dopo un decennio, ne abbiamo riparlato con Ernesto Galli Della Loggia.
Professor Galli Della Loggia, che cosa la spinse undici anni fa a proporre, dalle pagine del Corriere della Sera, di appendere la foto del bambino del Ghetto di Varsavia in ogni aula scolastica italiana?
All’epoca, nel 1999, ricordo che fu indetto un sondaggio del Corriere della Sera, su quale fosse l’immagine più rappresentativa del Novecento. E le prime due risultarono essere quella dell’uomo sulla luna e quella del bambino ebreo nel ghetto di Varsavia. Mettere questa immagine in ogni aula scolastica mi sembrò molto utile, un simbolo per insegnare, anche di riflesso, le regole del rispetto e della convivenza.
Si parlò anche di una possibile “banalizzazione” nell’uso di un’immagine così tragica. Lei oggi come risponderebbe?
Questi pericoli ci sono sempre. Tutto può essere banalizzato. Le immagini dell’Olocausto sono fin troppo utilizzate da tutti, anche le parole risultano oggi stereotipate, usurate. L’uso eccessivo genera stereotipi lessicali e visivi, genera retorica. La banalizzazione e l’usura simbolica sono un pericolo reale. E questo è un rischio che la Comunità ebraica italiana ha spesso sottovalutato. Non per questo tuttavia dobbiamo smettere di parlare o non usare più le fotografie che ritraggono quella tragedia.
Quando lei fece questa proposta, 11 anni fa, la Giornata della Memoria non era ancora stata istituita…
Io sono per evitare qualsiasi forma di ufficializzazione. Una legge che ricordi la Shoah? Non so se abbia davvero un senso. Il ricordo si deve tramandare con una serie di iniziative, non con una data ufficiale. Specie se è doloroso e sofferto. Demandare il ricordo a un giorno stabilito credo nuoccia profondamente alla memoria che si svuota di significato diventando solo celebrativa. Ufficializzare è qualcosa di terribile e controproducente, celebrare nelle scuole la Giornata della Memoria è una cosa che spesso suscita reazioni negative, se non addirittura di rifiuto, perché tutto quello che ai ragazzi arriva dalle istituzioni e dall’ufficialità suona spesso falso, inautentico, inutile.
I ricordi devono vivere da soli, non con il conforto delle leggi e delle celebrazioni. Sennò inaridiscono, si atrofizzano.
Quindi oggi lei è contrario al Giorno della Memoria?
Sì, se c’è dietro una circolare ministeriale. Sì, se è un’indicazione che viene dall’alto. Da una parte capisco che questa giornata sia per il mondo ebraico una grande retribuzione simbolica. Dall’altro assisto con sconforto alla rincorsa di “altre” giornate della memoria da parte di altre vittime e di altre minoranze.
All’epoca la sua iniziativa riscosse successo e il Corriere ricevette più di 6000 richieste per ricevere a casa quella immagine che il Corriere della Sera spediva in regalo a chi la volesse. Oggi lei rifarebbe la stessa proposta?
Sì, la rifarei. Ma all’epoca, 12 anni fa, ricordo che la reazione della Comunità ebraica fu molto fredda, sembrava non gliene importasse nulla a nessuno: non ho mai capito il perché –e oggi mi piacerebbe tanto saperlo-, ovvero perché a molti degli ebrei di Milano disturbasse così tanto quella foto simbolo sui muri delle aule scolastiche milanesi.