di Carlotta Jarach
«Quello che stiamo vivendo è un momento topico, poiché cade quest’anno un anniversario importante, i settanta anni dalla liberazione dal nazifascismo»: così, con le parole del giornalista Jacopo Tondelli, ha avuto inizio l’incontro “Onore alla Brigata Ebraica“, lunedì 2 febbraio, primo appuntamento di Bellaciao Milano, l’iniziativa del PD Metropolitano milanese per ricordare e celebrare la Resistenza e divulgare i valori dell’Antifascismo. E la serata assume un significato particolare dopo che, la mattina stessa, proprio davanti all’ingresso di Palazzo Isimbardi, luogo in cui si è svolto l’incontro, è stato rinvenuto il graffito “Sionisti assassini W Palestina”.
«Sono orgoglioso e fiero di partecipare a questa serata, specie dopo le scritte rinvenute questa mattina: alla luce di ciò che è successo stanotte sento di poter dire che abbiamo fatto una scelta importante, coraggiosa, storica» dice Daniele Cohen, Vicepresidente della Comunità, «spero che questo sia un auspicio affinché il prossimo 25 aprile la Brigata Ebraica possa sfilare in corteo senza fischi».
Interviene anche il Segretario PD Metropolitano, Pietro Bussolati, che porta i saluti degli organizzatori e legge la lettera dell’ambasciatore di Israele in Italia: «la coltivazione della memoria storica serve per coltivare i germi della tolleranza affinché si possa distinguere il male, e non si generalizzi».
La Brigata Ebraica, come inizia a raccontare lo storico David Bidussa, era una struttura di volontari, formatasi nel 1944, un gruppo di 5000 unità, sparsi per un territorio che comprendeva la Romagna, la Lombardia e il Veneto. La genesi della Brigata Ebraica, o come la chiama Bidussa «la sua preistoria», ha inizio nell’agosto del 1939 quando un nugolo di ebrei in Palestina capisce di dover prender parte a ciò che sta avvenendo in Europa, e comunica agli Alleati che sarà disponibile a combattere al loro fianco.
«Nella scelta di prendere le armi entra nel conto morire, ma soprattutto, anche senza dirlo a se stessi, quando sono i civili a prendere un’arma in mano, ciò che entra in questione è che si è disposti ad uccidere». La domanda quindi cambia: perché si è disposti a farlo? «Il tema include l’idea di riscatto. Si va a combattere in casa d’altri, insieme a quelli che là, a casa loro, stanno combattendo per la loro libertà, perché quel loro diritto alla rivolta è anche la testimonianza del nostro diritto alla rivolta. Si va là perché la possibilità del futuro include la scelta, e la scelta vuol dire che quel futuro, la possibilità di averne uno, non è un regalo. In ogni caso la scelta di esserci in quella lotta, racconta e testimonia che il tuo diritto, quello che percepisci e rivendichi come un diritto, non è un regalo». L’esperienza della brigata ebraica si colloca qui.
Interviene poi Marcello Pezzetti, Direttore scientifico del Museo della Shoah: «Gli ebrei inizialmente risposero alla politica aggressiva contro di loro con quella che era la tipica passività ebraica. Non si poteva improvvisamente disimparare una storia di oltre duemila anni: la vita nei ghetti continuava, continuava la letteratura e l’arte. E anche queste erano in fondo armi di resistenza». Ma, seppur in un primo momento questa fu la linea generale, ci furono anche insurrezioni armate: Pezzetti, come già Bidussa prima di lui, ci ricorda infatti che sebbene la rivolta del ghetto di Varsavia è l’evento più famoso, esso non fu isolato. Altre rivolte si susseguirono in Bielorussia e Polonia già a partire dal ’42, e poi ancora ci furono Triblinka e a Sobibor, fino al Sonderkommando nel 1944. Gli ebrei tuttavia agivano sempre in quanto tali, da soli, non avendo l’aiuto di uno stato, di un esercito, non avendo direttive nemmeno da un governo in esilio, né tantomeno potendo fare affidamento sul sostegno delle popolazioni locali, che verso di loro provavamo indifferenza se non addirittura odio.
La serata prosegue con la testimonianza di un perseguitato razziale e partigiano, Davide Shiffer, che porta la sua visione soprattutto di neurologo: l’appello al ricordo è rivolto a tutti, e si fa quanto mai difficile poiché includere esperienze porta necessariamente a una pretesa, difficile, di obiettività. I vari vissuti sono in opposizione tra loro, e questo necessariamente si traduce in una pluralità di pensieri: « la memoria del singolo, che ha agito spinto da un determinato pregiudizio, farà sì che quel singolo darà una determinata interpretazione. La memoria collettiva sarà un insieme di tante memorie singole, che come tali dovranno essere storicizzate».
A metà della serata è la volta dell’Onorevole Emanuele Fiano: «ritrovarsi in questa sede e per discutere di questo tema rappresenta un evento straordinario: insolenze come quelle di questa mattina sono un’anomalia tipica di una parte della sinistra italiana che si traduce in insulti durante il 25 aprile a chi sfoggia la bandiera con la stella di Davide in corteo. Parlare qui stasera è per me un riscatto». Anche noi ebrei, continua Fiano, ricordiamo più spesso chi ha vissuto da deportato: ci sentiamo più figli (e nipoti) della Shoah che figli di combattenti. Ci fa comodo, dice. «Bisogna raccontare e ricordare, per non rimanere ancora in esilio. Ricordare che nella vita si può sempre dire di no».
È poi il turno di Betti Guetta, Sociologa del CDEC: dimenticare, dice Guetta, è un problema delle nuove generazioni, ma anche e soprattutto del mondo adulto. «è diventato quanto mai necessario, in seguito ai recenti avvenimenti, fare una vera e propria opera di educazione, per far fronte agli errori semantici e linguistici che vengono sistematicamente perpetuati». Il vero problema, aggiunge poi la sociologa, è che più si va avanti, più perdiamo i sensi di colpa: e c’è il rischio che ciò porti ad una rapida crescita di disinformazione e di ostilità.
Davide Romano è il portavoce della Brigata Ebraica in questa serata: «da quando la Brigata Ebraica ha preso parte al corteo del 25 aprile ci sono sempre state contestazioni, ogni anno. Il 27 gennaio è il giorno in cui ci si ricorda degli ebrei come delle vittime, ma ad aprile dovrebbe essere un giorno di festa e di libertà, per tutti, non di sterili critiche». Ci sono fin troppe similitudini, continua Romano, su chi vuole cancellare la Giornata della Memoria e chi non vuole la Brigata Ebraica al corteo: «non dobbiamo cedere, bisogna combattere perché chiunque possa sfilare con la propria bandiera in un giorno di gioia come è il giorno della Liberazione. Perché per esempio, non sfoggiare la bandiera Americana? Chi meglio degli USA rese possibile la liberazione? Ho già parlato con l’Ambasciatore americano perché ciò avvenga, anche da quest’anno». È questa, conclude, la bellezza della multiculturalità: tutte le comunità riunite, in quella che dovrebbe essere una festa per famiglie, all’insegna del vero spirito di libertà.
Anche Ruggero Gabbai, Consigliere Comunale di Milano, critica aspramente le scritte antisioniste e antisemite rinvenute la mattina stessa: «un conto è criticare un governo e la situazione in Medio Oriente un conto è questo». È espressione, dice, di un mondo che non ha capito come trattare la questione, a differenza della sensibilità che il Sindaco ed il Vicesindaco hanno dimostrato nel corso degli anni.
L’ultimo intervento è di Daniele Nahum Responsabile Cultura PD Metropolitano: «arriva dal PD una proposta formale. Ufficialmente il prossimo 25 aprile la Brigata Ebraica sfilerà con noi». Dobbiamo agire e ribellarci, dice Nahum, a questo antisemitismo di sinistra, dobbiamo riconoscere il problema ed affrontarlo. «Ricordo che dopo la guerra furono proprio il Partito Comunista e il Partito Socialista che aiutarono molti ebrei a tornare a casa o in Israele. C’è un rapporto rotto che è nostro dovere ricucire».
È quanto mai difficile essere oggi ebrei di sinistra, ma più che mai dobbiamo essere sentinelle della democrazia in questo paese, continua Nahum.
«La presenza ebraica in Italia è stata ed è ancora fondamentale. Per quanto difficile, per come siamo fatti è naturale essere uomini e donne di sinistra. Perciò, arrivederci al 25 aprile».
E un augurio, da parte di tutti, che quella bandiera simbolo di democrazia, sia ancora ricordo di speranza e non più di rabbia.