«Camminando per strada, ho toccato con mano l’odio per l’ebreo»

Italia

di Ludovica Iacovacci
«Voi israeliani siete degli as­sassini di m**, ammaz­zate i bambini, ammazza­te le donne, ammazzate i vecchi. Andate via, vattene da qua». È con queste parole, miste a spu­ti e spinte, che al centro islamico in viale Jenner a Milano a fine giugno è stato aggredito Klaus Davi, al se­colo Sergio Klaus Mariotti, giorna­lista, opinionista e saggista che sta indagando gli effetti della narrazio­ne mediatica della guerra in Medio Oriente, nei quartieri di Milano, le “zone franche”, dove la presenza di arabi è cospicua. Per iniziare, l’au­tore si è recato in viale Jenner con l’intenzione di fare domande, su quanto successo dal 7 ottobre in poi, all’imam e ai fedeli del centro islami­co che passeggiavano per la strada pubblica. Il giornalista si è trovato oggetto di aggressioni, insulti e sputi da parte di arabi che lo accusavano di essere “israeliano” (Davi non è né ebreo né tantomeno israeliano, ndr). Il video che testimonia il suo spiace­vole incontro costituisce una prima parte di un progetto più grande. Bet Magazine lo ha intervistato per sa­perne di più.

Uno screenshot del primo video


Sono passate settimane dalla pubbli­cazione del suo lavoro. A mente fred­da, quali conclusioni ne ha tratto?

L’inchiesta continua. Sono previste venti puntate. Questo lavoro nasce da un senso di ribellione su un tema riguardo al quale c’è una coltre di silenzio. Ho voluto dare un segnale: nella città più celebrata e mitizzata d’Italia ci sono le stesse dinamiche che vediamo nelle banlieue delle grandi città francesi. Non mi interes­sa affrontare il tema dell’Islam in ge­nerale, ma quanto la narrazione e il dibattito sulla strage del 7 ottobre sta incidendo sulle comunità qui da noi. È un settore delicato dove ci sono grosse lacune narrative e di presa di coscienza. Vado sempre con un in­tento dialogante e voglia di imparare; e sto imparando. Preciso che voglio che questo lavoro sia mio e del mio team, e tale rimarrà. E nel momento in cui vado da solo e rischiando au­tonomamente, cosa mi si può dire?


Come crede che sia stato percepito il suo lavoro dai media italiani?

Intanto, rilevo che il mio lavoro non è stato criticato. Quando sono anda­to in viale Jenner, non ho avvisato le forze dell’ordine perché altrimenti non crei dialogo con le persone. Mi è dispiaciuto che sia uscito un co­municato attribuito alla Questura di Milano nel quale è stato detto che io abbia fatto una sorta di sondaggio: io non faccio sondaggi, sono andato lì a fare domande a frequentatori di una moschea. Ed è stato utile perché è venuto fuori quello che c’è in alme­no parte di questa comunità. Su due aspetti bisogna riflettere: il primo è l’immagine dell’ebreo, non dell’i­sraeliano. Chiunque parli bene di Israele diventa un ebreo. In secondo luogo: l’irrazionalità, a cui si aggiun­ge il controllo del territorio. Queste dinamiche si riscontrano allo Zen a Palermo, a Platì, comune di Reggio Calabria. E avvengono a Milano. Il filmato è molto eloquente, mancava poco perché succedesse qualcosa. Per fortuna non è successo, ma do­vremmo porci qualche interrogativo su queste realtà.

Crede che ci sia abbastanza coscien­za generale riguardo a questa situa­zione?

Io ho la netta sensazione che ci sia un deficit di coscienza generale. Milano è divisa in aree, in zone molto nette: la zona ZTL, la zona centro, semi­centro, e le periferie. Quest’ultime sono realtà abbandonate, dove lo Stato non mette il naso più di tanto e quindi non c’è presa di coscienza nei termini giusti. Io sono favorevole all’immigrazione, ho vissuto sempre in questi contesti e quindi sostengo i quartieri etnici. Il mio obiettivo è andare a capire che impatto potrebbe avere una narrazione pregiudiziale verso lo Stato di Israele, e quindi ver­so gli ebrei, in casa nostra. Nessuno su questo si è posto il problema. Per me il punto è che, conoscendo le di­namiche dei territori della crimina­lità organizzata, vedo che Milano ha intere zone franche dove, secondo le mie stime, il 95% di questi con­cittadini sono persone per bene ma esiste un 5% – e non è poco – che risponde a strutture che fanno capo a organizzazioni. Nel primo video tutto fila liscio all’inizio: quando i fedeli arrivano, alcuni rilasciano in­terviste. Dopo mezz’ora giungono altri due soggetti (quelli che hanno lo hanno aggredito, ndr). Qualcuno li ha mandati, escludo l’imam per­ché non è suo interesse creare il caso, dev’essere stato qualcun altro. I due signori sopraggiunti sono i classici scagnozzi mandati per allontanare, indice di qualcosa all’interno di que­sti meccanismi di tipo organizzativo.

Quali sono gli aspetti più allar­manti che il suo lavoro sta facendo emergere?

Ho avuto due sensazioni: impunità e sdoganamento. Impunità perché comportarsi così per strada vuol dire sentirsi impunito, controlli il territorio. Sdoganamento perché un comportamento del genere, così virulento, dieci anni fa non sarebbe stato pensabile. Le autorità rassicu­rano, fanno il loro mestiere, ma noi facciamo i giornalisti, e vediamo che le zone franche ci sono e non sono controllate, non adeguatamente.

Klaus, lei ha detto: “Dieci anni fa questo non sarebbe successo”. Il con­flitto in Medio Oriente sta eviden­temente indirizzando masse di per­sone verso una determinata lettura degli eventi, al punto che gli ebrei (e i non-ebrei che li sostengono) subisco­no le ripercussioni di ciò che accade in quella parte di mondo.

Loro non hanno detto “ebreo”, hanno detto “israeliano” quando mi hanno insultato. Le parole esatte sono sta­te: “Sporco israeliano, ammazzate i bambini”. Poi diventa un tutt’uno.

Crede però che da parte loro ci sia differenza a livello di accuse mosse?

No. All’inizio loro distinguono per­ché è stato detto loro di non dire  che gli israeliani sono ebrei. Poi, presi dalla foga – e questo uscirà nel corso della seconda parte del lavoro – dicono che gli ebrei controllano l’informazione, la politica, la Meloni. Non c’è distinzione, tutti vengono as­similati. La paura che ho toccato con mano è l’odio per la figura dell’ebreo. Mi sembra di vedere una vignetta de­gli anni ’30.

Quali conclusioni ne trae?

Sono molto preoccupato. Vedo quest’odio montare, vedo sottovalu­tazione. Ciò che mi fa specie è che la narrazione pubblica in Italia parla di questo tema come se l’Italia non avesse avuto un ruolo negli anni ’30 e ’40, come se non fossimo stati gli incubatori culturali del nazifascismo. La collettività e lo Stato hanno più doveri verso la Comunità ebraica. Non si può chiedere alle manifesta­zioni di togliere la kippah, la bandie­ra LGBT o quella di Israele. Lo Stato italiano è in debito con la Comunità e non può pretendere che gli ebrei tornino invisibili. Deve tutelarla nella sua unicità e peculiarità, anche nella libertà di utilizzare i simboli esterio­ri della propria identità. Nascondersi non è la soluzione, non si può preten­derlo da coloro che si è discriminato storicamente e che si è contribuito ad annientare. Mi appello alle istituzio­ni: non date più queste indicazioni agli ebrei, pensate alla loro sicurezza. Non hanno bisogno di parole o di solidarietà, hanno bisogno di fatti. Questo è un momento molto perico­loso per la Comunità. Dove ci porterà lo sdoganamento dell’antisemitismo, che non essendo osteggiato è di fatto consentito? A Worms, Meinz, cuore askenazita nel Medioevo, dicevano: “Qui non sarebbe mai accaduto”. Poi abbiamo visto cosa è successo. Idem a Berlino: “Qui non accadrà mai”, “Non vado via perché qui non succederà” si diceva e poi è accaduta la catastrofe. Colonia era il paradiso dell’ebraismo, si è trasformata in qualcosa di atro­ce. Mai fidarsi troppo. La differenza è che adesso c’è lo Stato di Israele, e non è da poco. Lo Stato di Israele è una garanzia ed è la differenza rispetto al passato.

Qui il video dell’intervista di Mosaico a Klaus Davi