di Sofia Tranchina
Cinque secoli dopo l’editto di espulsione dalla Sicilia per mano dei governatori di Spagna, gli ebrei tornano a Palermo con una nuova ma storica sinagoga.
Firmato venerdì 6 dicembre dal sindaco del Comune di Palermo Roberto Lagalla, dall’arcivescovo Mons. Corrado Lorefice della Curia di Palermo, e dalla presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane Noemi di Segni, il protocollo ridarà a Palermo una sinagoga nel quartiere ebraico, riqualificando l’oratorio sconsacrato di via Maqueda.
L’istituto siciliano di studi ebraici
Il traguardo arriva alla fine di un percorso partito nel 2017 grazie all’algerina ebrea Evelyne Aouate. Costretta a lasciare il Paese d’origine, Evelyne si rifugiò prima a Parigi e poi a Palermo, all’età di 18 anni. Arrivata nel capoluogo siciliano, credette di essere l’unica ebrea della città per oltre vent’anni, finché, entrata in contatto con altri ebrei locali, decise di intraprendere un percorso di riscoperta e rianimazione della comunità ebraica palermitana, parte della storia della città.
Così, 25 anni fa, fondò insieme a un gruppo di appassionati (che comprendeva anche cattolici) l’istituto siciliano di studi ebraici di via Wagner, dedicato al recupero dell’identità ebraica locale.
15 secoli di ebrei in Sicilia
ebrei, presenti nell’isola già nelle epoche ellenistica, romana, e bizantina, vissero periodi di repressione e periodi di relativa calma. Durante l’occupazione araba tra l’827 e il 1091, erano talmente integrati da essere definiti dallo storico Henri Bresc «arabi per lingua, ebrei per religione». Il loro quartiere, Harat al Yahud, confinava con quello musulmano, Harat Abu Himaz.
Durante la permanenza dei Normanni la comunità ebraica di Palermo era la più numerosa d’Italia: il geografo ed esploratore spagnolo Beniamino da Tudela racconta di circa tremila ebrei palermitani e diverse sinagoghe in città.
Tra il 1155 e il 1190 fu realizzata la Grande Sinagoga di Palermo, un edificio vasto, ricco e maestoso, vicino alle rive del torrente Kemonia, oggi interrato.
Secondo gli studi di Maria Eugenia Manzanella (che trovò per caso le tracce della preesistente sinagoga durante degli interventi edilizi nel 2011) la sinagoga aveva un pozzo interno per le abluzioni rituali, era circondata da alberi da frutto e viti arrampicate su pilastri di pietra. Dal soffitto pendevano lampade in vetro colorato, e su soppalchi rialzati, protetti da grate di legno, c’era il matroneo, da cui le donne seguivano le funzioni senza essere viste dagli uomini, per evitar loro distrazioni. Le rilevazioni di Manzanella, raccolte nel 2019 nel libro La Sinagoga Perduta di Palermo, storia e nuove scoperte sull’impianto dell’antica Meshita, aprono il dubbio alla possibilità che la sinagoga fosse stata costruita sui resti di una moschea abbandonata dagli arabi, per via dell’orientamento dell’edificio che parrebbe guardare non verso Gerusalemme, bensì verso la Mecca.
Tra le testimonianze della passata presenza ebraica a Palermo è emerso anche un mikveh sotto il cortile di Palazzo Marchesi.
Espulsione degli ebrei e distruzione della sinagoga
Durante l’occupazione degli Angioini e degli Aragonesi le limitazioni al culto ebraico continuarono a crescere, e si fecero più frequenti e gravi i pogrom antisemiti. Il 15 agosto 1474, a Modica, la festa dell’Assunzione di concluse con un efferato eccidio di centinaia di ebrei.
Infine, nel 1492, con il decreto di Granada, Ferdinando II d’Aragona e Isabella di Castiglia – consigliati dall’Inquisitore generale Torquemada – costrinsero gli ebrei a lasciare la Sicilia, concedendo loro solo pochi mesi per vendere i propri beni e partire.
Sulle pareti del palazzo Chiaramonte-Steri, che un tempo fungeva da prigione e tribunale dell’Inquisizione e oggi è parte dell’Università di Palermo, sono stati rinvenuti scarabocchi in ebraico scritti da vecchi detenuti. Lì, tre anni fa, l’università si è impegnata a restaurare il rapporto della città con i concittadini ebrei accendendo le candele di Hannukah.
L’editto colpì circa trentacinquemila ebrei siciliani, di cui almeno cinquemila a Palermo. Molti effettivamente fuggirono, ma alcuni, chiamati poi marrani, aderirono alla conversione forzata: di questi solo una parte continuò a praticare l’ebraismo in segreto e a tramandare i riti alle generazioni successive. Per questo, il numero di ebrei che vivono attualmente a Palermo rimane poco chiaro: «le persone nate da madre ebrea o padre ebreo sono numerose», raccontava Evelyne Aouate, ma non tutti loro si considerano ebrei.
La Grande Sinagoga di Palermo venne dunque distrutta, e vi fu sovrapposta la chiesa di San Nicolò da Tolentino e, nel 1617, il complesso conventuale degli Agostiniani e l’oratorio barocco di Santa Maria delle Grazie del Sabato, chiesa della congregazione di Gesù e Maria.
La chiesa sorge tra gli antichi borghi ebraici della Guzzetta e della Meschita, la giudecca palermitana, e si ritiene che il suo nome “del Sabato” richiami la celebrazione ebraica dello Shabbat precedentemente osservata in quello spazio.
La rinascita della sinagoga
Sconsacrata e inutilizzata dal 2017, la chiesa era già stata concessa dall’Arcivescovo Lorefice in comodato d’uso alla presidente della comunità ebraica di Napoli (in cui si registrano anche gli ebrei siciliani), Lydia Schapirer.
Quando l’ambasciatore d’Israele in Italia Dror Eydar ha visitato la Sicilia, gli è stato mostrato il progetto di intervento per il restauro dei locali dell’ex Oratorio di Santa Maria del Sabato. A causa della lentezza burocratica e della mancanza fondi, «questo dono era rimasto in sospeso in attesa della possibilità di avviare il restauro», spiega di Segni.
Oggi, «il progetto diventa possibile grazie all’intervento del Comune», che finanzierà «con proprie risorse e mezzi» la maggior parte dei costi di ristrutturazione dello spazio, mentre la comunità di Napoli si «assumerà la custodia dell’edificio e di tutte le sue pertinenze», e con essa le spese per l’arca, per i rotoli della Torah, per il sistema di sicurezza, per la menorah e tutto il resto.
Venuta a mancare nel 2022, Evelyne, «l’anima della riscoperta dell’ebraismo a Palermo» (così la definisce il vicepresidente dell’UCEI avv. Giulio Disegni) non vedrà mai l’apertura della sinagoga, ma alla firma del protocollo è stata rappresentata dalle sue figlie.
Si tratta di un passo importante per una città che ha a lungo voluto dimenticare e rimuovere l’impronta ebraica dalla sua Storia. Dalla persecuzione alla riscoperta, Palermo – da sempre città di incontro tra culture e religioni diverse – vuole ora ripartire con un messaggio di pace e responsabilizzazione. In fondo a una storia di sinagoghe trasformate in chiese, una chiesa viene (ri)trasformata in sinagoga.
L’apertura della nuova sinagoga è un simbolo di memoria dal forte valore simbolico, sopratutto in questo momento storico delicato: «è un forte segnale di pace e dialogo in un periodo storico segnato da conflitti internazionali», spiega Lagalla. Lo spazio non sarà solo un luogo di culto ma anche di cultura e di aggregazione, e promuoverà iniziative sociali con l’obiettivo di contrastare ogni forma di antisemitismo e fare memoria del passato.
Lagalla si era già mosso in quella direzione quando, al tempo in cui era rettore dell’Università di Palermo, decretò l’installazione a Palazzo Steri di una lapide in ricordo dei docenti ebrei cacciati nel 1938 dal fascismo; tra loro Emilio Segrè, vincitore nel 1959 del Premio Nobel per la Fisica. Inoltre, qualche anno fa nel vecchio quartiere ebraico sono stati installati cartelli stradali trilingue (in italiano, ebraico e arabo) come indicatori della zona, in omaggio al ricco passato della città.
Finora, Palermo non conta neppure abbastanza fedeli per formare un minyan, culto comunitario che richiede la presenza di dieci uomini adulti, ma un turismo più attento combinato con il nuovo centro ebraico potrebbe cambiare le cose. L’assessore al Turismo Alessandro Anello ha dichiarato: «in un periodo in cui assistiamo a un preoccupante aumento di episodi di antisemitismo, anche in seguito ai recenti eventi internazionali, Palermo risponde con un messaggio di apertura e inclusione. La collaborazione tra Comune, Curia e comunità ebraiche rafforza il legame con le radici storiche della nostra città e lancia un segnale chiaro: il rispetto reciproco è la base di una società civile e multiculturale».
L’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, ha sottolineato l’importanza del dialogo interreligioso: «il protocollo d’intesa rappresenta un segno concreto della nostra volontà di collaborazione. La storia di Palermo è intrecciata con le culture e le religioni che l’hanno attraversata, e oggi questo progetto ci ricorda quanto sia fondamentale costruire ponti di pace e rispetto reciproco. Sono lieto che l’Arcidiocesi abbia potuto contribuire a questo percorso, nella consapevolezza che la diversità è una ricchezza da valorizzare. Il nome di Dio non solo non divide ma crea ponti».