di Ester Moscati
Dopo tre anni, è giunta al termine la missione in Italia dell’Ambasciatore Dror Eydar, che il 4 settembre lascerà l’incarico. Il saluto agli italiani e in particolare alle comunità ebraiche è l’occasione di una conversazione che ripercorre le fasi di un percorso ricco di esperienze, riflessioni, incontri.
È Ambasciatore di Israele in Italia dal settembre 2019. Ha quindi condotto la sua missione diplomatica in tutto il difficile periodo della pandemia. Con le sue “cartoline da Roma” sui social network ha aperto la strada a una comunicazione meno formale e più immediata che ha avvicinato gli italiani, ebrei e no, alle ragioni di Israele. Come ha interpretato il suo ruolo?
Prima del mio arrivo in Italia mi sono domandato quale fosse il mio ruolo: Ambasciatore verso la Nazione italiana, naturalmente, ma anche verso gli ebrei italiani? Sono stato inviato dal Governo israeliano alla Repubblica italiana, ma penso che sia stata importante anche la relazione tra la entità politica dello Stato ebraico e la comunità degli ebrei che ha scelto di rimanere a vivere fuori da Israele. Qui in Italia abbiamo la comunità più antica della Diaspora, visto che la comunità di Babilonia, Iraq e Iran, non esiste più. In Italia gli ebrei hanno radici forti e profonde, già dall’Impero Romano. Nel mio lavoro ho portato Israele in Italia, ma sono stato anche un po’ ambasciatore di Italia in Israele perché ho parlato tante volte nei media israeliani e ho spiegato che non c’è oggi una vera connessione tra gli italiani di oggi e gli antichi romani. Dalla caduta dell’Impero Romano all’Unità di Italia sono passati secoli, e anche se Dante e Petrarca parlavano e sognavano l’Italia, per la sua realizzazione ci sono voluti ancora quasi cinquecento anni. Per me è stato naturale, oltre al lavoro con le Istituzioni italiane, volere rafforzare anche i rapporti tra me come Ambasciatore, Israele e le Comunità ebraiche. Ogni shabbat, appena arrivato, andavo in almeno due Baté Knesset per creare rapporti diretti con centinaia di ebrei, non solo a Roma, ma anche Torino, Milano, Firenze, Trieste e altre città. Anche in Ambasciata ho rafforzato i rapporti con le comunità, con l’Ucei, con Noemi Di Segni e con Ruth Dureghello presidente della comunità di Roma.
Poi è arrivata la pandemia. Una cosa che ricorderò per sempre è stato il momento in cui ho compreso, vedendolo con i miei occhi, che cosa significhi Israele per gli ebrei italiani. Quando l’Italia ha cominciato ad essere colpita dalla pandemia, e non ha chiuso immediatamente gli aeroporti, come molti altri Paesi dato che non si sapeva ancora bene che cosa fare, io ho chiamato le autorità israeliane e ho pregato di imparare dalla esperienza italiana in cui il virus si stava diffondendo. Così il Governo israeliano, per primo in occidente, ha chiuso il Paese al traffico aereo, cosa che non è stata apprezzata dal Governo italiano. Ho ricevuto chiamate ufficiali alle quali ho risposto che Israele è paragonabile alla Lombardia per popolazione e ampiezza territoriale e che la diffusione del virus sarebbe stata inevitabile. Una settimana dopo tutti gli Stati chiusero gli aeroporti. Questo accadeva un giovedì. Il venerdì in tempio gli ebrei mi hanno “circondato” domandandomi preoccupati “Cosa facciamo? Non possiamo andare in Israele!?”. C’era una grande paura, quasi fosse l’anteprima di una guerra. Per me quello fu in quel tempio un momento fondamentale, che mi ha cambiato, perché ho compreso che Israele per gli ebrei non è solo un posto dove andare, ma è la “polizza assicurativa” per tutti gli ebrei del mondo. Ho capito che, per quelle persone che mi stavano attorno, in quel momento, era come se una madre e un padre avessero chiuso la porta di casa ai propri figli che non potevano trovare sicurezza e riparo. In quel momento ho preso una decisione strategica: non lasciare l’Italia, rimanere come un atto di solidarietà.
Nel marzo 2020 ci sono stati lavoratori nei porti israeliani che non volevano scaricare le merci dall’Italia. Sono restato anche per mediare queste difficili situazioni economiche e per coordinare gli aiuti di Israele all’Italia, aiuti medici soprattutto, come il personale sanitario inviato dall’ospedale di eccellenza di Sheba a Torino. Ho iniziato dall’Ambasciata un lavoro costante di supporto alle Comunità ebraiche, telefonate per chiedere di che cosa potessero avere bisogno. Per esempio, a causa della pandemia molti studenti israeliani erano partiti facendo venire meno il minian in diversi templi delle piccole comunità. Ma mi è stato detto che le telefonate della Ambasciata erano “come una luce nelle tenebre” e questo mi ha profondamente commosso. In quel periodo mi sono reso conto anche che gli ebrei italiani, nonostante l’esiguità numerica, sono una presenza importante nel Paese, una voce autorevole.
Quindi io non mi considero solo un Ambasciatore del moderno Stato di Israele ma anche Ambasciatore dello Stato ebraico con la sua cultura, la sua tradizione e i suoi insegnamenti religiosi. Il mondo ci chiama il popolo del Libro, ma io dico che siamo il Popolo dei Libri, perché in migliaia di anni della nostra storia abbiamo costruito un grattacielo di testi, un tesoro intellettuale che abbiamo condiviso con il mondo. Cristianesimo e Islam derivano dalla nostra tradizione religiosa. Come l’idea di Nazione, come il concetto “ama il prossimo tuo”, la stessa democrazia. Durante la pandemia pensavo costantemente come poter essere d’aiuto. Raccoglievo telefonate, messaggi di richieste di aiuto, anche da medici che mi dicevano “si aspettano che non decidiamo chi deve vivere e chi morire”. Volevo fare un gesto di solidarietà e ho chiamato i sindaci di diverse città israeliane, Gerusalemme, Tel Aviv, Petach Tikvà che hanno illuminato i loro siti istituzionali con i colori della bandiera italiana. Nel comunicare sui social queste iniziative, ho aggiunto anche note di storia di queste città d’Israele, in modo da dare un contenuto di conoscenza agli italiani.
Quando mi hanno chiesto “Perché Israele fa questo per l’Italia?” ho risposto che Israele come Stato ebraico ha un imperativo categorico biblico, perché è scritto nel libro del Levitico, in Vaijkrà, “non stare sul sangue del tuo prossimo”, e il Talmud aggiunge che se si vede una persona attaccata da un animale o che sta annegando, non possiamo restare indifferenti ma dobbiamo intervenire per salvarlo. Questa è la nostra peculiarità come Stato ebraico. Come dice Moshé “Questa sarà la vostra intelligenza e la vostra saggezza agli occhi dei popoli”, cioè gli insegnamenti della Torà, il nostro tesoro. Io ho vissuto il mio incarico anche come Ambasciatore di questa tradizione.
Nel suo primo incontro con la comunità di Milano, appena nominato nel settembre 2019, aveva detto «Noi ebrei oggi, in Israele e in diaspora, viviamo in un’era miracolosa in cui per la prima volta dopo duemila anni possiamo proteggerci e difenderci da soli. In Israele e all’estero non c’è separazione e differenza, siamo una sola famiglia». Che messaggio lascia oggi alle comunità ebraiche italiane?
Una cosa che voglio dire è che il mio incarico di Ambasciatore di Israele è stato diverso da quello di tutti gli altri Ambasciatori perché mi sono trovato non solo a rappresentare il mio Paese, ma a difenderne il diritto all’esistenza. Questo non accade per nessun altro Paese al mondo! E il motivo è che il mettere in discussione il diritto all’esistenza di Israele è una conseguenza di 19 secoli di antisemitismo. Nessuno discute la legittimità degli Stati islamici o degli Stati cattolici, ma alcuni ritengono che uno ed uno solo Stato ebraico non sia legittimo. Il Sionismo è il sogno condiviso da tutti gli ebrei del mondo, per generazioni. Negare agli ebrei la realizzazione di questo sogno millenario è antisemitismo, secondo la definizione dell’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance), accolta anche dal Governo italiano. La realizzazione dello Stato moderno di Israele consente al popolo ebraico di avere Sovranità su una terra dove vivere secondo i nostri valori, in continuità con la nostra storia. Il ruolo importante della comunità ebraica qui in Italia è quello di difendere lo Stato ebraico, lo Stato di Israele.
Nel suo libro All’arco di Tito. Un ambasciatore d’Israele nel Belpaese (Belforte editore) insieme agli aneddoti legati ai suoi viaggi in giro per l’Italia, a spiegazioni sui principi e le festività dell’ebraismo, alle considerazioni geopolitiche, una considerevole importanza hanno i capitoli relativi alla Memoria e alla Shoah, ai Giusti e all’Italia in questo contesto.
Quando sono arrivato in Italia sono stato molto colpito da quanto il Governo italiano faccia per la Memoria della Shoah. Cerimonie, televisione, scuole…. ovviamente gli ebrei vengono coinvolti come testimoni e non solo la Senatrice Liliana Segre, ma tantissimi altri. C’è un piccolo museo anche nel ghetto ebraico a Roma sulla deportazione degli ebrei italiani. In Israele, anche se studiamo tanto a riguardo della Shoah, non ci soffermiamo sulla vicenda italiana, non la conosciamo bene; ma anche come storico durante questi tre anni ho imparato tanto. Ho avuto anche il privilegio di visitare come Ambasciatore dello Stato di Israele il campo di Ferramonti in Calabria e la Risiera di San Sabba presso Trieste. Gli storici studiano la Shoah contrapponendo “ebrei e nazifascisti”, ma secondo me c’è un terzo elemento, che è Israele. La sua assenza ha reso possibile la Shoah, la sua esistenza garantisce e difende tutti gli ebrei, ovunque nel mondo. Israele è nato nonostante la Shoah, perché lo sterminio è stato l’estremo tentativo di impedire agli ebrei di tornare a Sion. Posso parlare di Shoah dal punto di vista storico, filosofico, mistico, religioso, politico, mitologico, psicologico… ma la risposta definitiva alla domanda perché è accaduta la Shoah è più semplice: perché potevano farlo! Perché il popolo ebraico era senza un focolare nazionale. Israele è l’epilogo riparatore, non del Male, irreparabile, ma delle condizioni che hanno permesso la Shoah. Per questo un rappresentante di Israele dovrebbe partecipare ad ogni evento che ricorda la Shoah.
Il mio libro fa riferimento fin dal titolo all’arco di Tito a Roma, simbolo della nostra umiliazione ma anche della nostra redenzione. Nel novembre del 1947, quando all’ONU fu votata la nascita di Israele, il rabbino di Roma, David Prato, portò tutti gli ebrei romani, quelli che erano scampati alla Shoah e alla retata del 16 ottobre 1943, sotto l’arco di Tito, cosa che gli ebrei romani non facevano mai per non rivivere l’umiliazione descritta nel bassorilievo della Judea Capta. Ma Rav Prato fece passare gli ebrei in senso opposto a quello degli ebrei raffigurati come schiavi, con gli arredi sacri del Tempio, simboli della nostra indipendenza perduta: da ovest verso est, verso Gerusalemme. Stavamo tornando a Sion.
Chiedo ai nostri amici ebrei d’Italia di leggere questo libro e diffonderlo anche tra i giovani e gli amici non ebrei, perché ci sono tanti elementi di riflessione, tradizione religiosa, cultura, attualità, letteratura, storia, poesia… è una risposta alla domanda cos’è Israele: non è solo conflitto ma è una civiltà complessa. Spero di avere la possibilità di tornare in Italia da “uomo libero”, ex ambasciatore, per presentarlo.
Da storico, si aspettava che nel XXI secolo potesse scoppiare una guerra nel cuore dell’Europa? Israele ha coraggiosamente votato all’Onu contro l’invasione russa dell’Ucraina pur dipendendo dalla Russia per la sicurezza del confine nord. Che conseguenze ci saranno anche per il futuro del contenzioso con l’Iran?
Questo è un argomento molto delicato perché la Russia è di fatto al nostro confine nord e può decidere se e come agire con Iran ed Hezbollah che sono una concreta minaccia alla nostra sicurezza. Sosteniamo l’Ucraina con aiuti umanitari, abbiamo inviato a Leopoli generatori per dare energia agli ospedali, tonnellate di attrezzature mediche. Inviamo cibo e ospedali da campo e forniture per l’inverno. Poi accogliamo in Israele gli ebrei che vogliono lasciare l’Ucraina, donne e bambini. Ma dal punto di vista politico e strategico la situazione dei rapporti con la Russia è delicatissima per Israele. Che del resto è un piccolo Paese, abbiamo come alleati USA e Unione Europea e dobbiamo vedere che cosa faranno questi due protagonisti della scena mondiale.
Israele è all’avanguardia nel settore delle energie alternative e del recupero e conservazione dell’acqua. Come può aiutare gli altri Paesi che subiranno sempre più la crisi ambientale e la siccità?
Abbiamo molto da dire in questi campi. Oggi Israele è un brand; una azienda che può dire di utilizzare tecnologia israeliana, lo fa con orgoglio. Di recente, a maggio 2022, l’Ambasciata di Israele ha organizzato un incontro a Napoli, patrocinato dal Ministero italiano dell’agricoltura, dal Comune di Napoli, dalla Confagricoltura, con 23 imprese d’eccellenza israeliane e 80 aziende italiane, con 300 incontri bilaterali. Si è parlato di agricoltura, lotta alla desertificazione, recupero dell’acqua e desalinizzazione. In Israele oggi il 90 per cento dell’acqua, potabile o destinata all’uso industriale e agricolo, è acqua desalinizzata o recuperata dai bacini idrici. La Start-up Nation che è Israele vuole interagire sempre di più con i Paesi del bacino del Mediterraneo per lo sviluppo in questi settori che sono indispensabili per il futuro dell’umanità. Vogliamo condividere queste innovazioni. A volte mi chiedono: come è stato possibile per una nazione giovane come Israele acquisire così tante competenze e diventare un punto di riferimento mondiale nelle tecnologie, nella medicina, nella scienza della terra? Io rispondo che la nostra tradizione storica, religiosa, spirituale è di non accettare la realtà così com’è, ma vogliamo sempre discutere su come migliorare le cose. Quando Avraham discute con Dio per la salvezza di Sodoma, non lo fa invocando misericordia, ma con argomenti legali, giuridici. “Il Giudice del Mondo non farà forse un processo? Come puoi Tu distruggere il malvagio e chi non lo è, insieme?” Questa è una storia fantastica che non si trova in altre culture. Se possiamo discutere con Dio, possiamo discutere con chiunque, su qualunque cosa. Nel nostro DNA abbiamo la capacità di pensare fuori dagli schemi. Finalmente, siamo tornati a casa ed ora abbiamo più tempo di occuparci di idee, innovazione, scienza e non solo “sopravvivenza”, come in esilio. Rabbi Yehudà HaLevi scriveva nel suo libro Kuzari (XII secolo): “Il Re di Kuzar domanda, che differenza c’è tra la terra di Israele e le altre terre?” Il Rabbi risponde, siamo come un albero, che puoi piantare in ogni suolo e può produrre frutti, ma se pianti questo albero nel suo suolo originale, darà frutti migliori, foglie più verdi, radici più profonde. Perché Questa è la sua Terra. Israele è la terra della profezia. I nostri profeti potevano profetizzare solo in Israele e per Israele. Cos’è la profezia? È ispirazione, innovazione, condivisione per migliorare il mondo. Due terzi di Israele sono deserto, ma siamo riusciti a farlo fiorire. Possiamo condividere tutto questo.
Auguro a tutti gli ebrei italiani Leshanà Abba beYerushalaim, l’anno prossimo a Gerusalemme!