di Claudio Vercelli
Certo, grande è la confusione sotto il cielo. Tutti si accusano vicendevolmente di una qualche colpa. Così come è diffusa la tentazione di etichettare. Gli altri da sé, beninteso, definendoli in quanto indegni o comunque indecorosi. A prescindere. Questa, in fondo, è l’età dell’offesa permanente, quella per cui ogni cosa detta, al limite anche solo pensata, può costituire un attentato all’altrui integrità. Lo stesso termine “antisemitismo” viene usato con una tale disinvoltura, quindi con un’inflazione di ricorsi, da depotenziarne qualsiasi ricaduta effettiva. Un po’ come quando si urla “al lupo! Al lupo!”, quand’egli non c’è, salvo poi non essere più creduti laddove dovesse materializzarsi per davvero.
Una premessa doverosa, quella appena fatta, per incorniciare ciò che segue. Poiché nei giorni scorsi il giornale il Fatto Quotidiano, secondando una prassi da esso diffusa – quella di deformare in maniera caricaturale l’immagine e le fattezze di coloro che prende a bersaglio, a prescindere dal colore e dall’appartenenza politica – ha pubblicato una vignetta su Elly Schlein di dubbio gusto. Il problema, beninteso, non è tanto il gioco della parodia che è stato reso dalla matita del disegnatore Francesco Federighi. Non è in sé una novità, avendo infatti colpito ben altri bersagli prima di Schlein. Quindi, una sequenza, in se stessa per nulla connotata da un qualche intendimento razzista. Semmai, è la letteratura di corredo, laddove si fa riferimento alle sue origini («è figlia di Melvin Schlein, americano, ebreo ashkenazita»), che lascia basiti. Poiché la precisazione sembra rispondere al vecchio principio, nonché brocardo di senso giuridico, «excusatio non petita, accusatio manifesta» (“scusa non richiesta, accusa manifesta”, ossia “chi si scusa si accusa”).
La “scusa” (alla vignetta), in questo caso, è il riferimento all’impronta aschenazi.
Non stiamo sottilizzando né siano ossessionati dall’alzare sempre e comunque il dito accusatore. Non esiste il monopolio del dolore. Deformare i tratti di un volto, quindi, non corrisponde al fare da subito una qualche professione di razzismo. E neanche di antisemitismo. A patto che, per l’appunto, ad esso non si corredi un contesto che evoca, già nei titoli e nei contenuti, un’ambiguità che invece richiama vecchi stereotipi. Non importa quanto inconsapevolmente.
È questo, in fondo, il vero problema. Poiché per la quasi totalità dei lettori italiani, il rimando all’origine aschenazita, sefardita, mizrachi di un ebreo – chiunque egli sia – è pari pressoché al nulla pneumatico. Mentre non lo è per chi ha gli strumenti informativi, e culturali, per rifarsi ad una collocazione che, in questo caso, non è spaziale, territoriale o temporale ma etno-politica.
Capiamoci, poiché siamo su un terreno maledettamente scivoloso, dove tutto rischia di precipitare a valle come una slavina ingovernabile: il riferimento al mondo aschenazita in sé può essere del tutto neutro. Se si fanno «studi ebraici», ovvero se ci si esercita sull’analisi dell’ebraismo, prima o poi lo si incontra, come universo culturale, sociale, relazionale. Passato ed in parte presente. Ma nella pubblicistica novecentesca di grana grossa, e di riflesso in quella che arriva ai giorni nostri attraverso la polemica spicciola, il rimando non è mai ad una tradizione ebraica a sé stante, bensì ad un circuito di potere che, dall’Est europeo ante-rivoluzionario (parliamo di prima del 1917) si è poi diffuso, come una sorta di pandemia, ad Occidente. Nella tradizione antisemita contemporanea, l’ebraismo aschenazita è infatti quello del «giudeo-bolscevismo». Ovvero, di un potere tanto capillare e pervasivo quanto onnicomprensivo. È l’ossessione, nata a cavallo tra due secoli e diffusasi successivamente con la reazione alla Rivoluzione d’Ottobre, del «Weltjudentum» (il giudaismo mondiale), espressione con la quale si rimanda alla teoria del complotto semita, secondo la quale un collettivo fittizio, “gli ebrei” e l’ebraismo, si sforzerebbe di raggiungere il dominio mondiale. Cosa c’entrano gli ebrei aschenaziti? Sono loro ad avere creato, al medesimo tempo, il capitalismo finanziario e il bolscevismo, l’uno e l’altro strumenti dell’egemonia delle razze inferiori su quelle “superiori”. Fino ad arrivare alle tematizzazioni odierne, sul «Zionism Occupation Government» (il convincimento per cui alcuni regimi governativi sarebbero in realtà istituzioni fantoccio sotto il controllo segreto di ipotetici poteri ebraico-sionisti), sulla Israel Lobby che manipolerebbe Washington e così via.
Allo storico compete il ricordare come, nella deleteria tradizione occidentale, per il nazionalsocialismo ciò che appellava con il nome di “giudaismo mondiale” era il vero nemico del mondo, che la comunità di popolo ariana, razzialmente superiore, avrebbe dovuto distruggere per garantire la propria sopravvivenza. Così, dal 1941, i nazionalsocialisti giustificarono la loro guerra di omicidio di massa contro l’Unione Sovietica e, con essa, anche l’attuazione pratica dello sterminio delle comunità ebraiche. Nonché, beninteso, la sottomissione e la schiavizzazione delle società che cadevano sotto il loro dominio.
Elucubrazioni, le nostre? L’ennesima, asfissiante ‘reductio ad nazium’ (Leo Strauss)? Forse, se si intenda attribuire a vignettisti e redattori di articoli intenzioni che non sentono in alcun modo come loro proprie. Però, quando si scrive e ci si relaziona al grande pubblico, necessita conoscere testi e contesti, frasi e perifrasi, intesi e sottointesi. Il populismo che si spaccia come garibaldinismo intellettuale rischia, in franchezza, di fare da strumento di corredo ad un qualsiasi Viktor Orbán, posto che di apologeti, esegeti ed emuli, ad un tale riguardo, ce ne sono oramai parecchi in giro.
Il problema, gentili colleghi del Fatto Quotidiano, è che quando si calano le proprie carte al gioco del poker politico-informativo è sempre meglio accertarsi di quali valori esse siano effettivamente titolari, evitando di invocare sia un’innocenza che non si addice sia una ignoranza che non dovrebbe appartenere a chi di professione fa il comunicatore. Ed anche, molto spesso, il moralista. Nessun processo alle intenzioni, come neanche una sensibilità eccessivamente accentuata. Semmai, la consapevolezza che se il male non è “banale”, senz’altro nel nostro tempo la banalità è comunque un male. Dai molti risvolti.