di Ilaria Myr
Il caso del professore di filosofia del diritto dell’Università di Siena che ha postato dei Tweet inneggianti a Hitler e antisemiti ha sollevato grandi polemiche e la reazione – sebbene non immediata – dell’Ateneo, che ha deciso di procedere legalmente contro il docente. Dal canto suo, il professore ha chiamato in causa la libertà di espressione e il diritto di potere scrivere post di sostegno al nazismo e contro gli ebrei.
Questo è solo l’ultimo caso di cronaca che porta in primo piano un tema tanto difficile quanto importante, e cioè quello relativo alla legislazione esistente oggi in Italia in materia di dichiarazioni e azioni inneggianti al fascismo e al nazismo. Esistono, infatti, come è noto, delle norme legali applicabili che pongono dei limiti alla libertà di manifestare il proprio pensiero, garantita dall’art 21 della Costituzione e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che spesso si è espressa su casi di apologia o diniego della Shoah. “Per la Convenzione europea questa può essere oggetto di restrizioni che costituiscono misure necessarie in una società democratica per garantire la pubblica sicurezza, la protezione dell’ordine, della salute e della morale pubblica o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui – spiega a Mosaico Giorgio Sacerdoti, presidente A.G.E. Associazione Italiana Avvocati e Giuristi Ebrei -. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha sentenziato varie volte che il negazionismo della Shoah non è protetto da questa libertà di espressione perché si tratta un abuso di libertà di espressione, in quanto in molti casi non si è davanti ‘solo’ all’espressione di un falso, ma a un vero e proprio incitamento a colpire i diritti degli altri. L’abuso di diritto è trattato nell’articolo 17 della Convenzione europea, che vieta che alcun diritto possa essere inteso per giustificare un atto che mira alla distruzione dei diritti e delle libertà riconosciute dalla presente convenzione”.
La legislazione italiana
Oltre alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Italia sono valide anche diverse leggi specifiche per questi temi: la Legge Scelba del 1952, che vieta la ricostituzione del partito fascista e quindi anche gli atti di propaganda che mirano a esaltare l’ideologia nazista fascista e la Legge Mancino del 1993, “che si innesta sull’applicazione della convenzione dell’Onu contro la discriminazione razziale su base etnica e religiosa e che vieta manifestazione di odio e di eccitazione alla violenza”, spiega Sacerdoti. A queste si aggiunge la più recente legge sul negazionismo del 2016 “in applicazione di una direttiva dell’Unione europea che vieta l’apologia caratterizzata dei crimini condannati a Norimberga”. Infine, a monte vi è anche il divieto di apologia di reato, che punisce l’esaltazione o la difesa pubblica di azioni riconosciute come reato dalla legge.
L’apparato legislativo, dunque, esiste eccome per perseguire un caso come quello del professore di Siena: “Non a caso l’Università ha iniziato un processo istituzionale per la sua destituzione – commenta Sacerdoti – basato soprattutto sul divieto di apologia di fascismo e nazismo e di atti che possano invocare la ricostituzione di questi regimi”.
Ci sono però stati – e sicuramente ancora ci saranno – casi ‘al limite’, sui quali la Giurisprudenza si divide, come le manifestazioni dei nostalgici del fascismo: ad esempio, dopo una prima assoluzione, sono state condannate dalla Corte di Cassazione , a fine novembre, quattro persone che avevano fatto il saluto fascista durante il raduno al Campo 10 al Cimitero Musocco, nel 2016.
“In casi di questo tipo il discrimine sta nel capire se si tratta di un mero atto rievocativo o, invece, di un vero e proprio inneggiare al regime fascista, con atti tali da invocare un clima di ripristino di quel regime – spiega Sacerdoti -. Spesso il confine è molto labile e difficilmente individuabile per volontà degli stessi protagonisti, che stanno bene attenti a rimanere sul generico per potere sostenere che si trattava di una semplice espressione di un’opinione”.