di Claudio Vercelli
Cerchiamo di non gonfiare di impropri significati certe parole. Così come risparmiamoci il silenzio a prescindere, per ragioni di un non meglio identificato “quieto vivere”. Non montiamo la polemica ma non imponiamoci di tacere per non risultare reattivi oltre un’accettabile misura. Calma e gesso, quindi, poiché, in ultima istanza, non si è giudici di altri che non siano la propria persona e la sua condotta.
Anche per questo colui o coloro che sono chiamati a svolgere un ruolo pubblico, influenzando opinioni e condotte, hanno un obbligo aggiuntivo, ossia quello di misurare le parole. Soprattutto, di sapere quale sia il loro significato. Il che non implica solo il rimandare ai loro contenuti ma agli effetti che il pronunciarle in pubblico esse producono. Tanto più in un’età, quella dei social network, che sembrerebbe avere legittimato una sorta di licenza all’insulto e all’invettiva. Dietro la quale c’è la falsa libertà che deriva dalla distruzione del principio di autorevolezza, senza il quale nessuna società riesce a garantire la sua coesione interna.
Un politico, a maggiore ragione, è chiamato ad una tale consapevolezza. Come dire, ha una responsabilità aggiuntiva, rispetto al comune cittadino, in quanto parla in qualche modo anche a nome suo. E così facendo ne condiziona gli atteggiamenti quotidiani.
Di quanto Carlo Calenda abbia molto recentemente detto riguardo al rapporto tra omosessualità e «Antico Testamento» («Vecchio»?), già si è argomentato e controbattuto ripetutamente. Non sarebbe il caso di soffermarsi troppo sulle sue argomentazioni se non fosse per il fatto che esse, al netto di qualsiasi intenzione (elemento che di per sé è semmai un’aggravante), rivelano la persistenza di un retroterra culturale che fatica ad essere superato.
Infatti, come già è stato scritto su queste stesse pagine, alla dichiarazione del senatore Malan per cui «nel Levitico sta scritto che l’omosessualità è un abominio», nella risposta indignata di Calenda si afferma che «se le nostre regole derivassero dal Vecchio Testamento non saremmo molto diversi dai talebani. Per fortuna abbiamo avuto il Vangelo e lo Stato laico».
Dinanzi ad un tale scambio di profonda conoscenza del senso delle Scritture non si sa neanche cosa controbattere, a parte il senso dello scoramento che prende da subito. L’indignazione no, quella la lasciamo ad altri, che ne hanno saputo fare facile materia di manipolazione politica.
Ed allora, posto che i due esponenti politici non sono di certo degli sprovveduti e neanche degli avventurieri, qualche precisazione si impone.
La de-contestualizzazione e la de-storicizzazione di un Testo, tanto più se considerato fonte ineludibile in una complessa e stratificata civilizzazione che è presente su questo mondo da millenni, è un’opera tanto facile quanto poco dignitosa. Soprattutto per chi la compie. In una sorta di automatismo irriflessivo tanto superficiale quanto lesivo. Le «nostre regole» (per ebrei e no) derivano anche «dal Vecchio Testamento» poiché sono state trasposte e filtrate attraverso gli infiniti rivoli dell’esperienza umana articolatasi intorno alla sacralità della parola offerta. A credenti e no.
Non sono quindi la riproduzione di standard e cliché precostituiti ma lavorio di evoluzione. Un Testo non ha un immediato significato letterale se non per chi non ne sappia o voglia cogliere l’ineludibilità della sua interpretazione. Anzi, delle molteplici interpretazioni. Non a caso definiamo come integralisti, fondamentalisti ma anche fanatici ed estremisti coloro che cancellano una tale essenzialità.
La storia dell’ebraismo storico è intessuta di questo intreccio continuo tra Testo, contesto, esegetica, narrazione e trasmissione. L’esatto opposto, per l’appunto, di quelle correnti essenzialiste, basate sulla cristallizzazione di un’idea, da anteporre al principio di realtà. Le fonti – peraltro – non parlano mai da sole: assumono la forma e i contenuti di chi dà ad esse voce e sostanza, con le lingue e i codici dei tempi presi in considerazione. Non per questo sono prodotto di altro relativismo che non sia quello che deriva dalla loro interpretazione.
La «tradizione» e l’«identità» sono anche il prodotto di queste dinamiche. Se tutto ciò, allora, non ci fa «talebani», fa anche sì che sia completamente privo di senso definire l’età della loro codificazione come epoca di talebanesimo. In virtù, per l’appunto della consapevolezza del processo storico. Che non è in sé necessariamente progresso morale e civile ma comunque cognizione delle trasformazioni. Nelle cose e, soprattutto, nelle relazioni sociali.
In realtà il battibecco tra Malan e Calenda è tanto irritante quanto incongruo. Poiché salta a piè pari quella laicizzazione di cui, guarda caso, invece i due politici si ritengono, ognuno a modo suo proprio, alfieri. Almeno in casa propria, ovvero nelle loro rispettive famiglie politiche di appartenenza. Il rapporto con le Scritture è infatti, per entrambi informato a un letteralismo che ha ben poco a che fare con l’evoluzione della coscienza secolare. Poiché se per l’uno si tratta evidentemente di “tornare indietro”, almeno sul tema dell’omosessualità, schiacciandosi sulla banalizzazione del deposito civile di un Testo ineludibile, per l’altro – specularmente – si tratta di “andare avanti”, ascrivendolo al repertorio della sua inessenzialità.
C’è una lunga teoria di autorevoli pubblicisti che, dall’alto del loro scranno, già si sono esercitati, anche in tempi recenti, per rafforzare i paradigmi del pregiudizio ermeneutico. Non c’è proprio bisogno che altri ancora, magari con incarichi pubblici sulle spalle, accorrano ad aiutarne il discutibile magistero su tali ordini di questioni.
(Foto: Copyright: Tiberio Barchielli, licenza CC BY-NC-SA 2.0)