di Ilaria Myr e Roberto Zadik
Il 27 gennaio a Milano è stato celebrato con tre importanti testimonianze di altrettanti sopravvissuti alla Shoah: Liliana Segre, Goti Bauer e Franco Schoenheit. Grazie all’incessante lavoro dell’Associazione Figli della Shoah, hanno partecipato in tutto a questi eventi più di 4000 ragazzi delle scuole italiane (a cui si devono aggiungere tutti quelli che hanno seguito la diretta su Corriere.it della testimonianza a Liliana Segre).
Liliana Segre
Una platea di 2400 studenti milanese e lombardi si è riunita il 27 gennaio al Teatro Arcimboldi per ascoltare partecipe e commossa la Testimonianza di Liliana Segre, Presidente dell’Associazione Figli della Shoah. Proprio per questa testimonianza, trasmessa in streaming sul sito del Corriere della Sera, l’Associazione è stata insignita del riconoscimento della Medaglia di Rappresentanza del Presidente della Repubblica.
“Noi Sopravvissuti ci presentiamo da anni davanti a centinaia di insegnanti e migliaia di studenti per raccontare loro, senza mai odio, le nostre storie fatte di dolore, di lutti ma anche di forza di ricominciare. Il nostro auspicio è che le giovani generazioni raccolgano la fiaccola della Memoria e combattano antisemitismo e indifferenza“.
Questo il messaggio che Liliana ha voluto dare a tutti i ragazzi presenti, e a tutti coloro che hanno avuto la possibilità di seguirla in diretta on line sul sito del Corriere della Sera, e che, come dimostra la lettera di Viola Turone, ragazza di III media della Scuola Ebraica, ha certamente fatto breccia. “Quello che più di tutto mi è rimasto della storia della signora Segre oggi, è che l’indifferenza è la più grande causa di ciò che è accaduto – scrive la ragazza -. E sono convinta che lo scopo della sua testimonianza, il motivo per cui lei parla a ragazzi come noi, oltre a farci ricordare, è insegnare a non essere mai indifferenti.
Goti Bauer
Da vent’anni, Goti Bauer, assieme a Nedo Fiano e a Liliana Segre è una delle principali testimoni della Shoah nelle scuole, sempre a contatto con giovani e studenti per farli conoscere la sua tremenda esperienza nel lager di Auschwitz dove venne internata assieme alla sua famiglia. Unica sopravvissuta, scampata a anni di indicibili sofferenze, la Bauer a 92 anni, si è raccontata, mercoledi 27 gennaio dalle 11.30 con grande lucidità e pacatezza agli studenti delle superiori della scuola narrando “avvenimenti che risalgono a 71 anni fa ma che per me sembra siano successi ieri e che ancora oggi non riesco a dimenticare, ma intendo ricordare e trasmettere alle giovani generazioni”. Presentata dalla Preside Esterina, alla presenza dei ragazzi della prima superiore linguistico, scientifico e tecnico la Bauer si è definita “molto contenta di incontrarvi qui a scuola e di vedervi sempre così attenti e sensibili alla mia storia”. “Le difficoltà per me e la mia famiglia sono cominciate già nel 1938 quando sono scoppiate, proprio come una bomba, le leggi razziali. Fino allora avevamo vissuto in totale tranquillità con tutti e con massima integrazione e rispetto col mondo non ebraico circostante ma poi improvvisamente tutto è cambiato e molti amici di un tempo ci hanno d’un tratto tolto il saluto”. La donna ha ricordato che quando era adolescente studiava a Fiume, che prima era Italia e ora si trova in Croazia e fino al mese di settembre di quell’anno tutto era normale. “I nostri compagni ci hanno voltato le spalle e ci hanno abbandonato. Pian piano tutto peggiorò. Ci esclusero dalle scuole ed eravamo costretti a studiare privatamente a casa e poi davamo normalmente gli esami e i professori sembravano gentili. Questo continuò fino al 1943, quando dopo l’8 settembre, temendo un invasione dell’Italia, le leggi razziali divennero sempre più pesanti e molti ebrei venivano improvvisamente arrestati o sparivano nella notte. Ricordo con angoscia che la paura non ci abbandonava mai e stavamo chiusi in casa per giorni per non uscire ed essere arrestati da poliziotti fascisti in borghese”.
Fra commozione e fermezza, la Bauer ha ricordato con estrema chiarezza quel senso di angoscia, “non sapevamo dove andare, dove scappare ed eravamo senza soldi, perché i nostri genitori non lavoravano più. Gli ebrei stavano sparendo e tanti cattolici ci dissero di andare via e che l’Italia non era più un Paese dove potevamo vivere,” Ricorda la donna che ha descritto che fra la gente “c’erano molte reazioni differenti, la maggioranza delle persone era totalmente indifferente, ma c’erano anche molte persone che ci volevano aiutare e che si mostravano solidali con le nostre sofferenze”. “Per molto tempo” ricorda la Bauer” abitammo in Romagna, nella cittadina di Viserba perché c’era un impiegato comunale che rilasciava documenti falsi nel tentativo di salvare più famiglie possibile”. C’era uno spiraglio di speranza per Goti e per le famiglie ebraiche della zona, ma poi tutto andò nella maniera peggiore fino alla deportazione nel lager. Ma cosa successe? “ Siamo andati via da quella piccola cittadina romagnola dove tutti si conoscevano e arrivati a Milano ci siamo rivolti ad una organizzazione ebraiche che aiutava gli ebrei a espatriare in Svizzera. In città c’era una brava persona come il Cardinal Schuster che si attivò concretamente per salvare gli ebrei dalle deportazioni. Una coppia, ovviamente dietro compenso, ci disse di rivolgerci a delle guide che ci avrebbero accompagnato attraverso le montagne vicino Varese e che passando il confine svizzero tutto si sarebbe risolto”. “Partimmo da Milano” ha continuato la donna “a bordo di un furgone e ci dirigemmo a Ghirla, paesino di montagna. Poi la notte cominciammo a camminare nei boschi, assieme ad altre 12 persone. Fu straziante, ore di cammino, con la fame e il freddo nei boschi, con donne, bambini, malati e la meta sembrava non arrivare mai”. Una testimonianza sofferta ma espressa con tranquillità da Goti Bauer che ha svelato agli studenti, tutti molto attenti e rispettosi della sua narrazione, come vennero catturati e l’inganno delle guide che li accompagnarono sulle montagne. “Prima ci rassicurarono, furono molto premurosi e poi ci tradirono. Arrivati a destinazione alle prime luci del mattino, le guide ci dissero che bastava sollevare il filo della recinzione e che sarebbe tutto finito. Ma ci illusero”. “Una delle guide fece uno strano fischio e le finestre della caserma vicino improvvisamente si accesero. Dopo poco arrivarono i fascisti che ci dissero che eravamo in arresto”. “Era stato tutto falso fino a quel momento” ricorda amareggiata la sopravvissuta “Avevamo pagato un sacco di soldi, increduli per il voltafaccia di quelle guide. A Pontetresa arrivarono i tedeschi che ci misero in una locanda in lunghe fila, in attesa degli interrogatori. Poi venimmo trasferiti a San Vittore e c’erano persone tanto disperate da autodenunciarsi pur di finire in galera e avere un posto dove dormire e qualcosa da mangiare”. Senza più casa e senza più soldi, Goti e gli altri non sapevano più cosa fare né cosa li attendesse. Ma il peggio doveva ancora arrivare e vennero raggruppati, un gran numero di persone su un autobus coperto in modo che nessuno dei passanti potesse vedere quanto stava succedendo. Arrivarono alla Stazione Centrale, dove vennero convogliati sui treni verso i lager. “Nessuno sapeva cosa ci aspettasse. Vedevamo quella misteriosa scritta Auschwitz ma non ci diceva molto. Era una scena tremenda. Folle di persone malate, di bambini denutriti, di donne indebolite vennero caricate su quelli enormi vagoni dove non c’era nulla tranne un secchio e nessuna provvista, nulla da mangiare o da bere”. Così cominciò un tremendo viaggio durato giorni “nella completa indifferenza generale, eravamo schiacciati nel vagone e viaggiavamo verso l’ignoto. Ogni tanto il treno si fermava e i tedeschi aprivano le portiere, vuotavano i secchi per i bisogni, e una volta giunti a Monaco di Baviera un gruppo di crocerossine venne a portarci del brodo caldo. Stremati dalla fame e denutriti ci sembrava la cosa migliore del mondo”. Partiti il 16 maggio del 1944, gli ebrei di quel convoglio arrivarono nell’Inferno di Auschwitz Birkenau una settimana dopo, il 23 maggio. “Arrivati li, fummo divisi subito dalle nostre famiglie, registrati e tatuati con un numero sul braccio come seno di riconoscimento. Non avevamo più vestiti, ma stracci e venimmo privati di tutto e rasati”. “Non si poteva scegliere altro se non obbedire agli ordini, chi si ribellava e chi non poteva lavorare, veniva ucciso senza pietà nelle camere a gas”. Nella sua testimonianza, la donna ha ricordato “quanto tutto questo fosse difficile da sopportare ma che una forza misteriosa mi permise di sopravvivere. Ero sola, senza genitori, non sapevo dove fosse finito mio fratello e per anni lo aspettai ma non tornò mai più da me. Morì a Buchenwald e lo scoprì molto tempo dopo, grazie al Cdec”.
Come si viveva in quel lager e quali erano le mansioni? “Vivevamo stretti in baracche tanto piene da essere difficilmente abitabili, dormivamo in dieci su brande malferme e si sentivano pianti, preghiere e suppliche a Dio in tutte le lingue. C’erano prigionieri da tutta Europa, dalla Francia, dal Belgio, dalla Polonia era una vera babele del dolore”. Nella sua coinvolgente testimonianza la donna ha ricordato “era davvero pesante camminare vestiti di stracci, con quelli scomodissimi zoccoli di legno, sul terreno fangoso svolgendo lavori pesanti e insensati, facendo file di ore per andare al bagno. Il primo mese nel lager era cominciato in maniera apparentemente leggera, nel campo della quarantena. Poi ci portarono nel lager B e lì cominciarono a massacrarci di lavoro. Dovevamo andare vicino alla Vistola e pulire quel fiume dal fango ed era un compito molto faticoso perché con una carriola andavamo avanti e indietro caricando la melma e portandola via. Eravamo costantemente minacciati, sottoposti a violenze e umiliazioni e visitati dal tremendo Dottor Mengele che sceglieva chi potesse sopravvivere e chi invece doveva andare nelle camere a gas”. Dopo atroci sofferenze le cose improvvisamente cambiarono per Goti Bauer. “Tutto questo andò avanti per mesi, poi apprendemmo la notizia che i russi stavano liberando il lager e che i tedeschi stavano perdendo la guerra. Furono giorni molto confusi e venimmo portati in trecento nel campo di Terezin. Lì fu l’inizio della fine di quelle sofferenze. Venni mandata a Praga da una signora che si occupò di me come fosse mia madre. Era una donna deliziosa che ospitava le donne ebree traumatizzate dai campi e le aiutava a riprendersi dallo shock e a rifarsi una vita. Fu così anche per me”. Poi Goti decise di tornare a casa sua e assieme a tante persone prese il treno verso Vienna e da lì partì per Milano. A casa sua trovò tutto cambiato, c’era un altro cognome sul campanello e lì incontro una brava vicina e gradualmente ricominciò una nuova vita. “Decisi di tornare a Milano, solo per mio fratello e andavo in via Unione al Centro di accoglienza dei reduci della Shoah” ha ricordato “ma non tornò mai più”. Nel frattempo conobbe suo marito e nel 1946 decisero di sposarsi e di andare a vivere per un po’ di tempo in Eritrea dove lui lavorava. “Nonostante mi fossi ricostruita una famiglia” ha concluso Goti Bauer “non riuscì mai a dimenticare quella sofferenza e quel milione di bambini uccisi, strappati dai famigliari e messi nelle camere a gas. I loro pianti, il dolore delle loro famiglie e la paura che tutti provavamo”.
Franco Schoenheit
(guarda il video della testimonianza)
Molto intensa anche la testimonianza di Franco Schoenheit, 88 anni, ebreo ferrarese sopravvissuto a Buchenwald, che ha parlato al Conservatorio di Milano davanti a 1.500 ragazzi delle scuole superiori di primo e secondo grado provenienti da tutta Italia. L’evento è stato preceduto e seguito da alcune performances musicali dei ragazzi del Conservatorio.
Nonostante fosse la prima volta che parlava a un pubblico così vasto, Schoenheit ha coinvolto i ragazzi con il suo racconto – aiutato da Anna Loi, guida del memoriale della Shoah e rappresentante dell’Associazione Figli della Shoah -, partendo dalla sua infanzia di Ferrara, passando per le leggi razziali e arrivando alla deportazione a Buchenwald, a soli 17 anni. “Nella vita al campo si sopravviveva grazie a delle piccole ‘fortune quotidiane’ – ha raccontato ai ragazzi -. Io ero ottimista, mentre mio padre non lo era affatto. Ma io sapevo che ce l’avremo fatta”. Poi il rientro in Italia, a Ferrara, e il ritorno della madre, “uno dei degli eventi più felici della mia vita”. Franco con i suoi famigliari deve ricostruirsi una vita, senza pensare a quello che è successo. “E poi c’era molta indifferenza – spiega -. La gente non voleva ascoltare quello che ci era successo, nessuno ci chiedeva cosa avevamo sofferto, e spesso minimizzavano”.
Molte le domande dei ragazzi, affascinati dalla forza del testimone. Perché hai iniziato a parlare? gli hanno chiesto. “Io non lo faccio molto volentieri – ha confessato – perché sto male prima e dopo. Le conto sulle dita di una mano le volte in cui sono andato nelle scuole a testimoniare. E’ troppo doloroso per me”.
Forse però le richieste di abbracci e di fotografie da parte degli studenti hanno alleviato, anche solo per poco, quel tragico dolore.