di Vittorio Robiati Bendaud
Qualche settimana fa mi contattò l’amico Gabriele Nissim, uomo serio e buono a cui si devono molte iniziative importanti e meritorie, per sottoscrivere la Carta della Memoria. In questi anni, Gabriele, assieme ad alcuni altri amici firmatari, si è speso in modo encomiabile, indubitabile e alacre. Le osservazioni che seguono, pertanto, vogliono essere un contributo al confronto, tese, se ritenute fondate e corrette, a individuare ed esprimere con più efficacia una prospettiva comune.
Alcune parti del documento mi vedono concorde, mentre su altre sono assai dubbioso. Credo che il testo della Carta, infatti, nell’attuale formulazione appaia più che ambiguo su alcuni punti cruciali. E, parimenti, credo che così procedendo non renda sufficientemente conto della preziosa e puntuale opera sinora svolta da questi amici, del suo “spirito” -se mi si concede quest’espressione-, coniugante afflati capaci di affratellare e specificità da rispettare.
Un punto macroscopico, che mi vede dissenziente, è il passaggio, su cui ritornerò spesso, che propone di tenere assieme, in sede di Giornata della Memoria, facendo costante informazione, tutti i genocidi, ogni sorta di violenza, le pandemie e altri disastri naturali. Pur trattandosi di realtà serissime, trovo che sia erroneo e insidioso declinare assieme genocidi e pandemie -o altre calamità naturali-. Per quanto dolore, morte e distruzione possano essere forse dei fattori accomunanti, vi è una differenza essenziale e palese: in un caso si tratta di tragedie volute e perpetrate da esseri umani contro loro simili (vi sono intenzionalità e progettualità), nell’altro si fronteggiano eventi naturali -ove la “natura” non è né buona né cattiva, né ospitale né crudele, ma semplicemente se stessa, come ammoniva Leopardi. Con ogni evidenza, l’essere stato recentemente esposto all’eventualità di morte per Covid19 -l’aver avuto paura, con la possibilità concreta di perdere le persone che amo e l’aver relativamente sofferto- non mi rende in alcun modo simile a un perseguitato, a una vittima di stupro o a un superstite di un campo di sterminio, né sono possibili analogie di sorta.
Ma andiamo con ordine. Fa discutere la citazione di Y. Bauer per cui la Shoah sarebbe un “genocidio senza precedenti nella storia”, con le due esegesi contrapposte. Comunque la si voglia intendere, tale espressione, a mio avviso, lascia molto perplessi. I precedenti ci sono: nello specifico, in primis, quindici secoli di antisemitismo, incluse l’espulsione dalla Spagna e le misure dell’Inquisizione ispano-portoghese. Ma anche il protogenocidio degli Herero e dei Nama inflitto dai tedeschi; il Genocidio degli Armeni (con assiri e greci del Ponto), orchestrato e perpetrato dai turchi, con ampie complicità tedesche -con deportazioni forzate, anche per ferrovia; marce della morte; negazionismo intragenocidario e negazionismo, ancora in atto, post-genocidario-; le deportazioni, compiute dalle nazioni occidentali (con ampie complicità islamiche e forme di razzismo endogene di quel mondo, sovente ancora non sopite), di oltre 11 milioni di africani, con contabilità ed efficienza che lasciano sgomenti. I precedenti esistono e ciascuno è mostruoso. Senza questi precedenti, cominciando dall’unicum dell’antisemitismo nel suo plurisecolare multiforme declinarsi, la Shoah non sarebbe stata possibile.
Essa resta però eccedente, con specificità e autonomia proprie: la distruzione di un popolo particolare doveva essere universale (e si ricercarono difatti intese extraeuropee, con il mondo arabo-islamico, come Yad vaShem ha finalmente iniziato a riconoscere, ma non solo); la colpa consisteva nell’essere nati, senza possibilità di salvezza per bimbi e neonati, maschi o femmine che fossero, il che segna una discontinuità con altri genocidi; l’annientamento e la dissoluzione industriale della persona umana raggiunse l’acme; la volontà, poi, di distruzione, in Occidente e in Medio Oriente, della radice fondativa.
Asserire questo non significa negare o ridimensionare le specificità, gli orrori e i drammi degli altri genocidi, a partire da quello armeno, che alla Shoah è per molti versi intrecciato a filo doppio. Ogni genocidio possiede contesti, dimensioni, origini, sviluppi propri, non assimilabili gli uni agli altri. Il rispetto della memoria e delle vittime richiede contestualizzazioni e conoscenze rigorose di fenomeni specifici. La loro stessa comparazione, per essere possibile, non può prescindere da questo e a questo far ritorno, pena la pericolosa svalutazione dell’ebreo, dell’armeno, dell’uiguri, dell’assiro, del tutsi, dell’ucraino a generica “vittima” -prescindendo così proprio dalla sua identità collettiva e personale, dall’appartenenza che lo definiva e definisce e per cui lo si volle (e talora ancora vuole) uccidere- e l’abominio del nazista, del giovane turco, del comunista ridotto a generico “carnefice”. La spersonalizzazione, anche per universalizzazione, delle vittime e delle loro appartenenze è insidiosa, proprio perché fu uno dei caposaldi del male genocidario che si accanì contro queste persone. La tradizione ebraica insegna a commemorare le sofferenze altrui (si pensi al ricordo dei morti egizi a Pesach), ma impone che si operino distinzioni, rifiutando un “universalismo” del dolore, proprio perché non rispetterebbe la singolarità delle vittime.
Se è capitale il punto, evidenziato con forza e sensibilità da Gabriele Nissim, del presidiare e preservare le democrazie (ove è sottinteso che si tratta di quelle liberali-contrattualistico-capitaliste), condivido altresì che la memoria debba declinarsi in un mandato etico di attiva solidarietà per i popoli esposti a violenze, come è ricordato nella Carta. Essa non può però esimersi, e con almeno altrettanta forza, dal ricordare le memorie specifiche, avvinte al particolare presente e futuro di ogni popolo annientato. Nel nostro caso, l’ebraismo possiede (e la stessa cosa vale per gli armeni, pur essendo cristiani) un’imprescindibile dimensione tanto universale che particolare, tanto cosmopolita e globale che nazionale e territoriale. Ciò ha prodotto due diverse forme, che spesso hanno prestato i propri argomenti l’una all’altra, di antisemitismo: quello identitario aggressivo, diffamante gli ebrei in quanto “cosmopoliti”, e quello universalista, che ravvisa nell’ebraismo la resistenza cupa e ostinata dell’elemento angusto ed egoistico rispetto a orizzonti di più ampio respiro (Kant fu terribilmente chiaro!). Ogni processo di sola universalizzazione di qualche aspetto fondamentale dell’ebraismo si è fatalmente rivolto contro l’ebraismo stesso, producendo antisemitismo. La sola universalizzazione della memoria, che peraltro l’annacqua, non di rado si rivolge già contro gli ebrei contemporanei. Chi conosce il lessico dell’antisemitismo sa che, per la sua indisponibilità a processi universalistici, l’ebraismo fu perfino degradato a “fossile” …non a caso anche gli armeni vennero definiti così da quegli stessi ambienti accademici europei, alla fine del XIX secolo, con un linguaggio antisemita.
Ecco, allora, che la Giornata della Memoria, per quanto abbia un valore universale, da non occultare e da coltivare, deve servire anzitutto a contrastare l’antisemitismo, che ha rialzato potentemente la testa e che è diretto contro l’esistenza concreta degli ebrei: ossia oggi, non a caso, anzitutto contro lo Stato di Israele. Parimenti per la memoria del Genocidio Armeno, il cui ricordo dovrebbe servire, come vergognosamente non è accaduto, per tutelare questo popolo nei suoi confini, ossia in quanto resta delle sue terre avite. Contenere la Giornata del 24 aprile (o altre) nella Giornata della Memoria -o in una settimana della memoria- indebolisce queste memorie anziché rafforzarle. E questo si applica a ogni altro caso. Non si fa un favore alla memoria armena, assira, ucraina, yazida etc. etc. inquadrandola nella Giornata della Memoria o in contenitori onnicomprensivi, come pure non si fa un favore alla memoria ebraica. Il mandato a noi ebrei oggi non è quindi, per mantenere questo esempio, di sussumere la memoria armena (o di chiunque altro) nella Giornata della Memoria, in una sorta di fossa comune delle memorie, ma di rafforzarla nella sua singolarità, rafforzando la forza politica del ricordo istituzionalizzato per il 24 aprile.
L’accostamento di tutti i genocidi e di tante altre tragedie proposto nella Carta mi sembra inoltre riecheggiare la teoria accademica (o, forse sarebbe meglio dire, “dottrina”) dell’intersezionalità -più che perniciosa- circa razzismo, antisemitismo, violenza sulle donne, omofobia, transfobia. Come smaschera Douglas Murray ne La pazzia delle folle. Gender, razza e identità (2020), non solo tale teoria non rende davvero ragione di ogni singolo male, ma nei fatti ingenera nuovo odio, incluso nuovo antisemitismo (p. 372: laddove, in una presunta “gerarchia dell’oppressione”, e dunque della discriminazione, gli ebrei vengono identificati con il gruppo dominante e discriminatorio per eccellenza, e così demonizzati).
La Carta, infine, si diffonde poco, e con mia sorpresa, sulla lotta ferma e senza quartiere al negazionismo. Esistono, come tutti sappiamo, forme virulente e soft di negazionismo. Vale per la Shoah, con l’antisemitismo negazionista; vale per il negazionismo del Genocidio Armeno, un negazionismo di Stato in atto da cento anni, che ancora adduce infiniti lutti, sofferenze, persecuzioni e umiliazioni ai discendenti delle vittime, e che le Repubbliche di Turchia e dell’Azerbaijan esportano ovunque possano, con vari mezzi. Siamo arrivati al paradosso che il negazionismo turco trovò talora sponde in certuni storici della Shoah, come Guenther Lewy (anche se molti altri storici ebrei, in Diaspora e in Israele, hanno sostenuto con forza il riconoscimento del genocidio armeno), o che Elie Wiesel, grandissimo uomo, per una certa fase della sua vita sposò in materia un negazionismo “soft”, che poi corresse e abbandonò riconoscendo il Genocidio armeno (grandissimo anche perché ebbe il coraggio e la dignità di cambiare idea). Specifico questo punto perché, se la Shoah si può dire “conclusa” con l’ammissione di colpevolezza e di responsabilità dei governi tedesco e italiano, il genocidio armeno, al contrario, resta “aperto”, laddove l’insidia del negazionismo rende ancora più esposto il popolo vittima, come l’attualità tragicamente e vergognosamente dimostra. Contenitori unici per tutte le memorie genocidarie, specie se nel contesto della Giornata della Memoria, indeboliscono ipso facto anche la lotta ai negazionismi, che è anch’essa specifica.