di Ester Moscati
Lo strabismo di una Europa troppo ambigua sul Medio Oriente. Il radicalismo dei giovani Propal, le università in subbuglio. Com’è difficile oggi essere ebrei di sinistra in Italia e ritrovare un’identità comune. Parla Piero Fassino, deputato del Partito Democratico e leader dell’associazione Sinistra per Israele che si prefigge di far conoscere Israele per quello che è: uno Stato democratico forte della propria dialettica interna, con una importante componente che cerca la pace e il dialogo.
«Non è accettabile che si dimentichi che il primo vero responsabile della tragedia che da sette mesi sconvolge il Medio Oriente si chiama Hamas, il cui obiettivo dichiarato è la soppressione dello Stato di Israele. Il che rende paradossale che si accusi Israele di genocidio, quando è Hamas che predica la cacciata degli ebrei dal Medio Oriente e la persegue ricorrendo a ogni efferatezza, come è accaduto il 7 ottobre». Parola di Piero Fassino, onorevole del Partito Democratico e politico di lungo corso, con un passato di incarichi ministeriali e negli Esteri, leader dell’associazione Sinistra per Israele e promotore del Manifesto “Dal 7 ottobre alla pace” lanciato il 6 marzo 2024, “aperto a quanti credono in una soluzione fondata sui diritti di entrambi i popoli e sulla loro convivenza”, che ha raccolto oltre 1500 firme in poche settimane. Dal marzo 2024, Piero Fassino è Presidente del Comitato Medio Oriente del Consiglio d’Europa. Bet Magazine lo ha intervistato.
Onorevole Fassino, è dal 1967 che è difficile essere “ebrei di sinistra” ed è proprio per questo nel ‘68 nacque Sinistra per Israele. Oggi quanto è difficile portare avanti a sinistra anche le ragioni di Israele?
Non si può pensare la sinistra senza il mondo ebraico, due entità che sono state per un lungo periodo in grande consonanza, dalla fine dell’Ottocento fino a gran parte del Novecento. Il movimento sionista nasce insieme ai movimenti socialisti alla fine dell’Ottocento e la prima tessera del movimento sionista di Theodor Herzl rappresenta un bue che trascina l’aratro in un campo di grano con il sole nascente all’orizzonte, un simbolo socialista. Nel corso del Novecento c’è stata una fortissima compenetrazione tra i movimenti socialisti di liberazione sociale e il sionismo movimento di liberazione sociale nazionale del popolo ebraico. La lotta contro il nazismo e il fascismo ha ulteriormente cementato quel sodalizio, e la tragedia della Shoah ancora di più. Tanto è vero che all’indomani della Seconda guerra mondiale è stata la sinistra la principale sostenitrice della nascita di Israele.
Sono dirigenti laburisti, da Levi Eshkol a Ben Gurion, a Shimon Peres, a Golda Meir, a Abba Eban, al padre dell’attuale presidente Herzog, a Rabin e così via, ad aver fondato lo Stato di Israele, forgiandone lo spirito democratico e progressista e dando vita a quella forma di socialismo autogestionario particolarmente originale che è il kibbutz.
È nel ‘67 e poi anche nel ‘73 che si produce una lacerazione traumatica tra sinistra e Israele, di fronte ad una guerra figlia del mondo bipolare e delle aree di influenza. In quelle guerre del 1967, Israele è sostenuto dagli Stati Uniti e dall’Occidente, mentre i Paesi arabi sono sostenuti dall’Unione Sovietica e da gran parte della sinistra. E quella contrapposizione produsse una lacerazione anche nella sinistra italiana mettendo molti militanti ebrei di fronte a una scelta: se in nome della appartenenza politica lasciare la propria comunità o se in nome della propria identità lasciare il partito di appartenenza. Ne ho conosciuti tanti che si trovarono in questa situazione drammatica. Per questo motivo è nata “Sinistra per Israele”, nel 1968, proprio per curare quella ferita e ricomporre la lacerazione. Un’operazione che ha richiesto pazienza e determinazione e che conobbe agli inizi degli anni ‘80 un passaggio molto importante nella grande manifestazione dei laburisti a Tel Aviv, guidati da Shimon Peres, con 500 mila persone e una forte presa di coscienza di fronte alla guerra in Libano. Quella manifestazione rese evidente che c’era una sinistra israeliana a cui riferirsi. E via via si sono riallacciati i rapporti con i partiti della sinistra israeliana, il Labour, il Meretz, i partiti arabi. Un lavoro culminato nel viaggio in Israele di Giorgio Napolitano, come responsabile della politica estera del PCI. E pochi anni dopo, nel 1991, nel viaggio di Achille Occhetto, qualche settimana dopo la nascita del Partito Democratico della Sinistra, accompagnato da me. Lì Occhetto durante una lectio all’Università di Tel Aviv pronunciò parole chiare e nette: “Il sionismo è stato il movimento di liberazione sociale e nazionale del popolo ebraico e affonda le sue radici nella storia e nei valori del movimento operaio”. Non era passato molto tempo dalla sciagurata risoluzione delle Nazioni Unite che dichiarava il sionismo “una forma di razzismo”. Occhetto mise un punto fermo sul valore del sionismo.
Da lì, i rapporti si sono normalizzati e io, che ho avuto all’interno del mio partito il compito di seguire i rapporti con Israele e con gli ebrei italiani, ho effettuato molte missioni in Israele, incontrando tutti i principali esponenti dello Stato di Israele, sia di sinistra che no.
Ora c’è la guerra a Gaza ed è un momento drammatico. Il 7 ottobre è stato un orrore e il PD, insieme a tutto lo schieramento politico italiano, è stato a fianco di Israele nel condannare la violenza dell’attacco di Hamas e anche tutto ciò che Hamas rappresenta. Poi la guerra, con la sua violenza intrinseca, ha fatto riemergere verso Israele letture manichee e pregiudizi inaccettabili, stilemi che ripropongono forme odiose di antisemitismo. Soprattutto nella sinistra radicale. Sinistra per Israele è nata con un compito molto preciso: far conoscere e riconoscere Israele per quello che è, uno Stato democratico, con una forte dialettica interna e in cui c’è una fortissima componente desiderosa di pace. E soprattutto uno Stato che ha diritto di esistere, sicuro e riconosciuto dai suoi vicini.
La parola “sionista” nelle piazze e nei social è divenuta un insulto. Cosa si può fare, a sinistra, per spiegare ai giovani il significato del sionismo?
È una manifestazione di ignoranza storica che ignora, come ho già ricordato, che il sionismo nasce alla fine dell’800 insieme al movimento socialista, ispirato dagli stessi valori di emancipazione e progresso che poi hanno guidato la formazione prima dello Yishuv e poi dello Stato di Israele. Bisogna fare un’azione pedagogica per far conoscere queste nozioni basilari. Il sionismo non è una forma di razzismo, né tantomeno è accettabile l’aberrazione di paragonarlo al nazismo, come si sente dire nelle manifestazioni dei Free Palestine e dei centri sociali. L’emozione suscitata dalle tante vittime della guerra ha portato a manifestazioni contro Israele, con slogan antisemiti, antisionisti e antiebraici. Sono atteggiamenti inaccettabili che vanno contrastati con grande fermezza, ben consapevoli di quante tragedie l’antisemitismo ha provocato nella storia europea e del mondo.
Nella sua relazione all’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa lei ha detto, a 100 giorni dalla guerra, di condannare gli slogan antisemiti e antisionisti nelle manifestazioni pro-palestinesi. Oggi, a oltre 180 giorni dall’inizio del conflitto, si ascoltano anche nelle aule universitarie e nelle sale di Rettorato occupate. Come si può fermare questa deriva?
Il boicottaggio delle Università israeliane è la punta più oscurantista di questa ignoranza storica. Boicottare le Università è un assurdo. Intanto perché l’università per definizione è il luogo dell’incontro, dello scambio culturale, del dialogo. E poi nello specifico le università israeliane sono uno dei luoghi più attivi nel contestare la politica di Netanyahu e nel battersi per una soluzione di pace con i palestinesi e per i diritti civili per tutta la popolazione. Boicottare le Università è proprio l’ultima cosa da fare nel quadro di una volontà di ricostruire un progetto di pacificazione. Le aggressioni contro le Università e le richieste di boicottaggio, l’occupazione dei Rettorati sono episodi gravissimi. E colpisce che ci siano docenti universitari che avallano, per opportunismo o codardia, le pressioni che vengono da centri radicali.
Il Manifesto di “Sinistra per Israele” può essere visto come una piattaforma programmatica per azioni concrete? Quali prospettive realistiche per la soluzione due popoli due Stati?
Bisogna prendere atto che Netanyahu è un ostacolo alla pace. E non da oggi. Ha indebolito la ANP, ha incrementato gli insediamenti in Cisgiordania, ha rifiutato l’esistenza e la possibilità della creazione di uno Stato palestinese. Non dimentichiamo che, all’indomani dell’assassinio di Yitzhak Rabin, Netanyahu dichiarò che era morto anche il processo di pace di Oslo. Ma deve essere chiaro che criticare Netanyahu non significa negare il diritto di Israele ad esistere e a difendersi. In quella terra, bisogna sempre sottolinearlo, esistono due diritti: il diritto di Israele ad esistere in sicurezza e in pace, riconosciuto dai suoi vicini, e il diritto dei palestinesi ad avere ugualmente un loro Stato e un loro riconoscimento giuridico. Il diritto di Israele a vivere in pace con i suoi vicini richiede di battersi contro l’antisionismo e contro ogni forma di antisemitismo che purtroppo sta riprendendo piede. Il Manifesto di “Sinistra per Israele” è stato ad oggi sottoscritto da circa 1500 persone, tra cui personalità del Partito Democratico e della sinistra progressista e riformista. Una linea che nel PD ha un consenso più ampio di quello che si crede. Ci sono certo anche frange all’interno del Partito che assumono atteggiamenti di pregiudizio contro Israele, ma sono minoritarie.
Tra poco ci saranno le elezioni europee. Possono gli ebrei dare fiducia alla sinistra perché l’Europa non abbandoni Israele? C’è speranza per la rinascita di un processo di pace?
La speranza ci viene data dalle migliaia di persone in Israele che manifestano per la democrazia e che dimostrano che la volontà di pace non è stata cancellata dall’orrore del 7 ottobre, benché lo scopo di Hamas fosse esattamente quello: sono stati attaccati proprio i kibbutz dove vivevano ebrei più impegnati in progetti di pace, kibbutz pacifisti che intessevano relazioni e scambi culturali con gli arabi palestinesi, nelle scuole, nel lavoro… La speranza sulla quale dobbiamo lavorare è anche quella di sostenere le voci di chi, in campo palestinese, è interessato a un rinnovamento e a riprendere un cammino di pacificazione e di riconoscimento di Israele. Ovviamente sotto il giogo di Hamas è molto più difficile per un palestinese far sentire la sua voce, ma ci sono forze che vanno sostenute e incoraggiate a non ritrarsi. E l’Europa deve fare la propria parte, liberandosi però da posizioni che non comprendono la sofferenza degli israeliani e del popolo ebraico. Troppe volte l’Europa è apparsa strabica, pronta a chiudere gli occhi sulle molte contraddizioni del campo palestinese e al tempo stesso enfaticamente intransigente su ogni atto israeliano. Come ho detto all’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, serve una forte iniziativa internazionale per fermare la guerra, ottenere la liberazione degli ostaggi, liberare i palestinesi dalla oppressione di Hamas, restituire Gaza a una vita civile e aprire la strada a una soluzione politica. E in questa direzione anche il Consiglio d’Europa – che ha istituito un Comitato per il Medio Oriente di cui sono il Presidente – è chiamato a fare la propria parte, intensificando la cooperazione con la Knesset e il Consiglio Legislativo Palestinese e promuovendo la cooperazione tra loro.
Foto in alto: manifestazioni contro Netanyahu (immagine di repertorio, wikicommons)