di Ilaria Myr
Giorno della Memoria 2024. Come parlare di Shoah il prossimo 27 gennaio? Come evitare l’ipocrisia di chi piange gli ebrei morti ma non difende quelli vivi? Siamo davanti a un corto circuito: la società occidentale non riesce più a pensare a israeliani e ebrei come vittime perché li considera “occupanti e oppressori”. Studenti che non vogliono più parlare di Shoah il 27 gennaio quanto di Gaza, professori smarriti, università in subbuglio. Come continuare dunque a fare Memoria? La parola a storici e esperti
“Never again is now!”, “Mai più è ora!”. Questo lo slogan che all’indomani del 7 ottobre è subito circolato nel mondo ebraico. Un grido di rabbia, un invito sofferto a ridare senso e valore a quel “mai più” usato e abusato quando si parla di Shoah. Non a caso, davanti alle immagini atroci – documentate dagli stessi terroristi, esattamente come facevano anche i nazisti (con strumenti ovviamente diversi) – delle esecuzioni commesse casa per casa dai terroristi di Hamas, davanti a tutto ciò a molti sono venute in mente le immagini delle uccisioni degli ebrei da parte delle Einsaztgruppen, le retate naziste nelle case, i pogrom nell’Europa orientale. Come se non bastasse, alle voci odiose di chi già l’8 ottobre giubilava per l’attacco a Israele o giustificava l’attentato con un altrettanto inaccettabile “sì, ma…, sì però l’occupazione israeliana…” – si aggiunge la violenza verbale di alcuni licei e università italiane di oggi. E che dire degli slogan antisemiti gridati nelle piazze pro-Pal, e dei molti attacchi contro gli ebrei in tutto il mondo, con picchi mai raggiunti prima? Soprattutto, si è assistito a una ripugnante equiparazione fra nazismo e Israele, in cui gli ebrei, “vittime” per eccellenza, diventano oggi i carnefici.
Per non parlare poi dell’indifferenza e del silenzio colpevole di media e istituzioni – prime fra tutte le organizzazioni femministe di fronte agli stupri sulle donne! – così come della freddezza dimostrata da amici e conoscenti e narrata con amarezza sui social da molti ebrei. Un clima di indifferenza che ha richiamato quegli anni Trenta del XX secolo, da cui scaturì la Shoah. Da qui la sofferenza della società civile israeliana e del mondo ebraico, quel dire a denti stretti “Mai più è ora!”, Ah sì? Non doveva più accadere? E invece è accaduto di nuovo”.
Un antisemitismo mai sopito
«Il 7 ottobre ci siamo ritrovati a vivere un’esperienza molto simile alla Shoah: più piccola nelle dimensioni, ma per certi aspetti anche più crudele e innovativa nei livelli di perversione raggiunti dai terroristi di Hamas, che nella sua carta costitutiva si riferisce chiaramente a un progetto genocida. E l’ondata di odio che ci sommerge in tutto il mondo dimostra che siamo tornati alle stesse violenze anche fisiche, allo stesso spirito genocidario, che vuole nessun ebreo ‘dal fiume al mare’ e nessuno Stato di Israele. Tutto ciò ci fa credere che il messaggio della Shoah non solo non sia stato recepito, ma anche l’illusione del mai più, del ‘never again’ e che non ci sia stato un vero processo di riflessione sulle fasi orrende della Shoah nella società civile occidentale. C’eravano illusi e adesso ci siamo svegliati».
Non usa mezzi termini Sergio Della Pergola, professore emerito all’Università Ebraica di Gerusalemme, demografo e studioso di storia ebraica contemporanea, consulente del governo israeliano, di Yad Vashem e dell’Istituto Centrale di Statistica di Israele: la memoria della Shoah non ha “vaccinato” dal commettere atrocità simili, come invece per decenni si è creduto. Questo perché, nel caso degli ebrei, esiste un fenomeno tutt’altro che semplice, l’antisemitismo, che, come ha dimostrato Della Pergola in suoi numerosi studi, ha diverse facce inseparabili fra loro: contro le persone e la comunità, come negazione della Shoah e come negazione al diritto di uno Stato degli ebrei. «L’illusione, purtroppo diffusa, che l’odio contro Israele sia diverso dagli altri è falsa empiricamente e illusoria teoricamente – spiega Della Pergola -. Il sentimento antisemita, che è sempre esistito, con i fatti del 7 ottobre è riemerso di nuovo in tutta la sua violenza. Ma attenzione: come emerge da uno studio dell’Istituto Cattaneo sul pregiudizio antiebraico negli atenei italiani, esso non si è espresso solo con l’offensiva israeliana a Gaza, ma già dall’indomani dell’attacco di Hamas. La solidarietà a Israele e l’empatia che ci si sarebbe aspettati subito dopo gli attacchi non solo non ci sono state, ma sono state anzi sostituite da un aumento incredibile degli atti antisemiti. Quindi, il sentimento bestiale e viscerale antiisraeliano antisemita non ha nulla a che fare con i fatti, ma è endemico, e quindi non estirpabile».
Come quindi tornare a parlare di Memoria il 27 gennaio? Come non farsi irritare dall’ipocrisia e dalla retorica del “mai più” quando abbiamo visto quel 7 ottobre che tanti incubi e traumi ha risvegliato? Insomma, come non farsi travolgere dall’orticaria quando i palinsesti tv offriranno i film sui lager nazisti o i dibattiti sulla Seconda guerra e la Shoah? Come ripensare le politiche della Memoria? Dovremmo “scioperare”, affermano semi-seri e provocatoriamente in molti, lasciare che a gestire il Giorno della Memoria 2024 siano gli altri, i non-ebrei. Del resto, anche Gadi Luzzatto Voghera, direttore della Fondazione CDEC parla di un odio antiebraico mai sopito, che si manifesta quando si presentano determinate condizioni. «Il 7 ottobre ha gettato in confusione tutto il mondo occidentale abituato a percepire l’israeliano come il “cattivo”, l’aggressore. Com’è possibile allora che con il 7 ottobre l’immagine dell’israeliano si sia ribaltata diventando quella di una vittima? Un corto circuito che ha mandato in tilt il pregiudizio anti-israeliano e che ha creato, come reazione, un deflagrare ulteriore dell’antisemitismo. E se la retorica main stream trasmette l’immagine dell’israeliano oppressore che “ammazza” i bambini palestinesi, come è possibile che questi diventi improvvisamente oppresso? Una confusione che ha creato una breccia dalla quale è scaturito tutto il sommerso antigiudaico che la società occidentale ha nella pancia, e cioè l’antisemitismo che, come diciamo da anni, è sempre esistito nel mondo occidentale e ciclicamente viene fuori per esprimere sentimenti di pancia e irrazionali».
Qualcosa è andato storto
Ma allora che cosa non ha funzionato nella trasmissione della memoria della Shoah? «Alla società italiana non è mai stato chiaro il nesso fra la memoria della Shoah e la realtà contemporanea, così come non è mai stata chiara né interessante l’essenza stessa dello Stato di Israele, la sua vita, storia e articolazione – continua Luzzatto Voghera -. Dal canto nostro, come mondo ebraico abbiamo sbagliato ad adagiarci sull’idea di essere le vittime, cosa che è molto consolatoria, ma non spiega niente. E poi ci siamo basati in maniera eccessiva e colpevole, facendone un uso distorto, dei sopravvissuti, non lavorando abbastanza su quello che raccontano e non riuscendo a portare la società italiana a un vero esame di coscienza e di responsabilità per quello che fu commesso allora». Insomma quel famoso “mea culpa” per il fascismo, le Leggi razziali e la persecuzione che in Italia, a differenza che in Germania, non è mai veramente avvenuto. Inoltre, aggiunge lo storico Claudio Vercelli, «l’avere trasformato la Shoah in una metonimia assoluta del male ha innescato una sorta di rincorsa vittimistica da parte di altri gruppi: se il genocidio è la tragedia del Novecento per eccellenza, allora il potere accostare la propria condizione a quella degli ebrei offre una maggiore credibilità alla propria causa. La competizione per lo status di “vittima” rende inoltre insensato il rimando al ‘mai più!’, che rischia di trasformarsi in un imperativo vuoto, smentito dai fatti quotidiani».
Il problema tuttavia è che il Giorno della Memoria è stato vissuto finora nell’immaginario collettivo come “la festa degli ebrei”. «Gli ebrei non dovrebbero partecipare alle celebrazioni del 27 gennaio, che è un giorno in cui gli Stati europei dovrebbero pentirsi di quello che hanno fatto durante la Shoah – commenta Della Pergola -. Noi abbiamo già il nostro giorno in cui ricordiamo i nostri morti, che è Yom Ha Shoah, non abbiamo bisogno di essere presenti il 27 gennaio. Invece veniamo invitati e partecipiamo. Ma, come emerge chiaramente oggi, è profondamente sbagliato». Che fare quindi? Disertare il 27 gennaio? Sottrarsi a eventi e incontri?
Scioperare il 27 gennaio?
Del resto è sotto gli occhi di tutti quanto negli anni il Giorno della memoria sia diventato una celebrazione sempre più retorica e meno focalizzata sui contenuti, spesso annacquata da altri argomenti, che nulla hanno a che vedere con la Shoah e le violenze del nazifascismo. A poche settimane dal 27 gennaio, ci troviamo dunque davanti al dilemma: come procedere?
«Il mondo ebraico non dovrebbe partecipare – commenta tranchant Della Pergola, lanciando una provocazione -: dobbiamo fare capire che la decenza morale è finita, che siamo indignati da chi piange gli ebrei morti ma non difende quelli vivi. Dobbiamo scioperare, per mostrare la nostra protesta nei confronti del fallimento completo di questa iniziativa che era in origine illuminante ed encomiabile, ma i cui risultati vanno purtroppo in direzione differente. E per ribadire che se oggi si colpisce Israele, si colpiscono anche quegli stessi ebrei che il 27 gennaio tutti piangono».
Non è invece d’accordo con la provocazione di Della Pergola il direttore del CDEC. «L’unica arma che abbiamo è continuare a parlare di Memoria – è convinto Luzzatto Voghera -. Se noi scioperiamo adesso sulla Memoria concordiamo con l’amara considerazione di Liliana Segre: che dopo di lei non ne parlerà nessuno e che tutto è stato vano. In questi anni è stato fatto un grandissimo lavoro che ha cambiato culturalmente la percezione della Shoah in questo Paese: certo con errori, ma comunque oggi le giovani generazioni sanno di cosa si parla. Gli ebrei in Italia sono troppo pochi: abbiamo quindi il dovere di presidiare con il nostro lavoro un terreno che se no rischia di essere preda di negazionismi inaccettabili. Per questo sono nati negli anni istituti – il CDEC, il Memoriale della Shoah, il Meis di Ferrara – che hanno questo compito». Il problema però non è tanto cosa fare quest’anno, ma i prossimi. «Sarebbe sicuramente una provocazione necessaria, ma temo che il problema si riproporrebbe negli anni successivi. Se ci rifiutiamo quest’anno di partecipare, come potremo poi riprendere nel 2025? – si chiede preoccupata Daniela Dana, presidente dell’Associazione Figli della Shoah –. Saremmo in grave difficoltà e rischieremmo di perdere tutto il lavoro fatto in vent’anni per fare conoscere quello che è stata la Shoah».
Le sfide per la didattica della Shoah
Gli interrogativi su cosa fare quest’anno per il Giorno della Memoria arrivano però anche dal mondo didattico, che chiede agli enti che se ne occupano come affrontare l’argomento dopo il 7 ottobre e lo scoppio della guerra a Gaza. «Fra gli insegnanti c’è una grande sensazione di smarrimento – spiega la presidente dell’Associazione Figli della Shoah, che da anni fornisce al corpo docente corsi e strumenti per affrontare la didattica della Shoah -. Molti ci hanno chiesto consigli su che tipo di attività proporre, dopo che alcuni alunni hanno detto loro: “Prof quest’anno non si sogni di parlare di Shoah, parliamo di Gaza”. Ma questo è terribile perché lo sterminio degli ebrei, che ha determinate coordinate storiche e geografiche, non dovrebbe avere nulla a che fare con la guerra in corso, che è certo terribile ma che è qualcosa di molto diverso. Se il Giorno della memoria ha funzionato fino al 6 ottobre, perché dal 7 ottobre è tutto cambiato? Perché nell’unico giorno in cui, per legge dello Stato, si ricorda la Shoah si deve parlare del conflitto israelo-palestinese, che invece si può affrontare negli altri 364 giorni dell’anno? È come se venissimo defraudati della nostra memoria, e della riflessione sulle responsabilità di chi perpetuò quello sterminio». Siamo davanti a un corto circuito, che porta molti a utilizzare la parola “genocidio”, che indica la Shoah, per parlare di quello che avviene a Gaza, e a vedere nelle “vittime” di ieri, gli ebrei, i carnefici di oggi. Un ribaltamento che fa comodo a molti, onde cancellare sensi di colpa e passate vergogne.
Davanti alla constatazione che i mezzi usati fino a oggi non funzionano più, c’è bisogno di nuove modalità didattiche, che tengano conto dell’impatto che hanno i social media nella vita dei ragazzi e della viralità che hanno i discorsi di odio su queste piattaforme. «Abbiamo ricominciato a portare nelle scuole corsi sull’ebraismo e identità ebraica e soprattutto gli interventi sulla piramide dell’odio, con cui si parla di Shoah, ma si affrontano anche le dinamiche dell’hate speech, che è oggi un’emergenza fra i giovani: tanto che la richiesta dalle scuole è stata enorme. Questo ci deve aprire gli occhi su quanto sia importante sostenere gli insegnanti che desiderano trattare il tema della Shoah in classe, ma anche su quanto sia urgente avere anche altri strumenti più vicini al mondo dei giovani e alla realtà».
«Si tratta di lavorare sulla metodologia della didattica della Shoah, cercando di distinguere le vicende trascorse da quelle presenti -aggiunge lo storico Claudio Vercelli –. Altrimenti, il rischio non solo di una sovrapposizione ma anche di un ribaltamento dei ruoli (dove le vittime di allora diventano i “carnefici” di oggi) è immediatamente dietro l’angolo, quanto meno nel giudizio di senso comune».
Occorre spostare quindi il focus e puntare di più sulle radici della Shoah? Puntare sulla genesi dell’antisemitismo e sul perché del suo persistere invece che concentrarsi solo sui lager e le deportazioni? La didattica della Shoah deve riposizionarsi? Forse sì, dicono gli esperti.
7 ottobre e Shoah in Israele
Un discorso speculare viene fatto anche in Israele, dove all’indomani del 7 ottobre la gente ha cominciato a usare un linguaggio connesso alla Shoah per descrivere quello che è successo mentre molti ragazzi hanno iniziato a dire “quest’anno non faremo il viaggio della memoria in Polonia, ma al kibbutz Beeri”. Oppure, davanti alle foto esposte allo Yad Vashem dei massacri delle Einsatzgruppen, il commento è stato: “è proprio quello che è successo a Nir Oz”. Un risveglio dei traumi del passato. «Questi sentimenti, se da un lato del tutto comprensibili, ci portano a riflettere su come si possa parlare di Shoah qui in Israele – racconta a Bet Magazine Rocco Giansante, responsabile Italian Desk allo Yad Vashem -. Ma ci interroghiamo anche su come farlo in un contesto internazionale, dove gli episodi antisemiti si sono moltiplicati enormemente, e l’equazione israeliani = nazisti e palestinesi = nuovi ebrei è di pubblico dominio. Stiamo quindi creando dei materiali che supportino i docenti nella trasmissione dei fatti storici. Per gli Stati fuori da Israele, poi, è importante parlare anche del periodo subito dopo la guerra, con la creazione dello Stato di Israele, in modo da smontare le convinzioni che esso sia una forma di colonialismo e che non abbia alcun legame storico con questa terra».
Ritornare alla Storia
In un contesto in cui cresce l’antisemitismo, dove complottismo e manipolazione sono all’ordine del giorno in fatto di ebrei, il ritorno alla Storia e alla conoscenza è quindi lo strumento che chi si occupa di didattica della Shoah deve fornire al mondo scolastico per fare fronte alle nuove sfide poste dal 7 ottobre.
«Il modo in cui si è fatto memoria della Shoà negli ultimi è stato spesso rituale e generico, perché astorico – dice convinto Ugo Volli, saggista -: si è parlato del genocidio degli ebrei di Europa come se fosse stato un atto isolato e non la conseguenza di un orientamento millenario delle Chiese, dell’Islam, perfino del mondo laico illuminista e poi marxista che si è espresso in propaganda incessante contro gli ebrei, legislazioni discriminatorie e spesso in stragi minori alla Shoah solo per il numero delle vittime, non per volontà genocida. Bisogna cambiare questa narrazione “eccezionale”, bisogna smettere di presentare l’antisemitismo come una specie di razzismo, bisogna recuperare la profondità storica dell’odio verso gli ebrei, e spiegare perché esso oggi alberghi ancora nelle menti di molti, paradossalmente soprattutto dei “progressisti”.»
Ed è qui che deve intervenire il mondo scolastico. «La scuola è il luogo per eccellenza in cui si formano le menti, in cui si dovrebbe imparare a capire la complessità della realtà ed è lì che si deve lavorare per fornire consapevolezza e non, invece, dibattiti politici o relativizzazioni pseudostoriche – aggiunge Daniela Dana -. Per questo è fondamentale proteggere il Giorno della Memoria». Per fare in modo così che questo mai più non sia una parola vuota, ma un lemma di rinascita per tutto l’Occidente.