Viaggio di solidarietà in Israele.
I leader delle istituzioni ebraiche italiane hanno compiuto un viaggio di solidarietà in Israele, dopo la fine delle operazioni a Gaza.La Comunità ebraica di Milano ha inviato a rappresentarla la giovane Giulia Temin, attiva nel movimento Hashomer Hatzair, per dare un segnale forte sulla volontà di coinvolgere la nuova generazione nella politica comunitaria. Ecco il suo reportage.
Ho guardato fuori dal finestrino del pullman e il mio sguardo si è posato su Israele: campi verdissimi, piccoli moshavim sparsi qua e là sulle colline, un ragazzo arabo che aspetta alla fermata dell’autobus, serre bianche che testimoniano la fatica di intere generazioni per proteggere le piante dall’ardente sole del Neghev, una soldatessa più o meno della mia età che fa l’autostop. Mille scorci di vita quotidiana passano davanti agli occhi, e penso che un paesaggio simile potrei trovarlo anche qui dalle nostre parti, forse in Toscana. Improvvisamente mi tornano in mente altre immagini, quelle di pochi giorni fa, radicalmente diverse: mezzi blindati, esplosioni, macerie, corpi esanimi. Immagini che hanno scosso il mondo. Mi chiedo come sia possibile che a soli tre giorni dalla tregua qui si respiri una sensazione di calma, di vitalità e di una normalità disarmante.
La risposta alle domande che mi ponevo la mattina del 21 gennaio mentre il pullman ci portava da Ashkelon a Sderot è arrivata nelle ore successive, grazie alle parole e alle emozioni delle persone che hanno incrociato la strada della delegazione italiana di cui facevo parte, in viaggio nei territori colpiti dal conflitto. Ora, riguardando indietro, cerco di tirare le fila di quest’esperienza, di dare un senso a quelle parole dette, ai luoghi visitati, alle espressioni dei volti.
Quello che abbiamo visto è stata l’incredibile capacità delle istituzioni israeliane di proteggere la popolazione, reagendo prontamente a ogni situazione di pericolo. I fondi che arrivano dall’estero ai villaggi di confine in pochi giorni si trasformano in tetti di metallo e cemento armato per le scuole, in attrezzature elettroniche di emergenza, in rifugi antimissile e fermate dell’autobus blindate. Forse noi italiani dovremmo trarne qualche insegnamento.
Quello che abbiamo visto è stata la solidarietà reciproca della popolazione e la cooperazione di fronte ai pericoli e alle difficoltà: interi villaggi che durante il conflitto hanno lasciato aperte le porte di tutte le case, per permettere a chi stava fuori di correre nei rifugi in caso di emergenza; famiglie che hanno sostenuto i vicini di casa senza più un tetto sulla testa per colpa dei missili Kassam; la solidarietà di un paese intero che si è stretto intorno alle famiglie dei soldati feriti, infondendogli speranza anche quando questa sembrava una lucina in fondo a un tunnel buio.
In generale c’è un grande desiderio di mettere insieme le forze per ricostruire ciò che è andato distrutto, e il protagonismo della gente comune nella ricostruzione di un paese è un valore che Israele dovrebbe insegnare al mondo intero. Gli israeliani non aspettano mai che un miracolo arrivi per tirarli fuori dalle situazioni peggiori, sono i primi ad alzare la testa e a riunirsi per permettere tanti piccoli miracoli, grazie alla pazienza e al sudore della fronte.
C’è una cosa però che mi ha colpito più di altre, che spesso viene data per scontata, ma che quando si vive in guerra non lo è per nulla: la lucidità delle persone. Mi sarei aspettata più rabbia per le sofferenze patite in questi anni, più odio verso i vicini palestinesi; ma la gente, così come la stampa israeliana, ha dimostrato di saper rimanere lucida anche nei momenti più difficili, senza abbandonarsi a quell’emotività che trasuda dagli articoli dei nostri quotidiani, che non serve né a capire le dinamiche dei problemi né ad affrontarli. Il sindaco di Sderot ha ribadito più volte di voler riaprire il prima possibile i rapporti con la popolazione di Gaza, impediti da Hamas dopo il colpo di stato, e altri civili hanno esternato il loro sgomento sapendo che l’offensiva israeliana aveva colpito uomini e donne coi quali avevano intrattenuto rapporti di amicizia e di lavoro, prima che Hamas salisse al potere. Questa è anche la dimostrazione che in guerra l’umanità non sempre va perduta.
A qualche giorno dalla tregua, mi aspettavo che Israele fosse come un animale che si lecca le ferite dopo un combattimento. Mi aspettavo di vedere una popolazione stanca di sentire le sirene suonare all’impazzata, stanca di non avere il tempo di nascondersi nei rifugi, stanca di dover negare ai propri figli un’infanzia serena, senza più le forze per risollevarsi. Questi tre brevi, ma intensi giorni, mi hanno permesso di ricredermi. Nonostante tutto, Israele è un paese vitale, sempre pronto a rinnovarsi e a voltare pagina.