Rom oggi senza una casa come un tempo gli ebrei per 40 anni nel deserto: una condizione che ci accomuna. Così ha detto Yasha Reibman, invitando il 30 settembre un gruppo di Rom e don Colmegna nella Sukkà allestita dal Merkas in piazza Cordusio. Sono venuti, accolti dal rabbino capo Alfonso Arbib e da rav Rodal. Un gesto altamente simbolico che ripropone il problema dei Rom nelle nostre città, un popolo ancora discriminato e guardato con sospetto al quale lattore Moni Ovadia aveva recentemente proposto di assegnare il Premio Nobel per la pace.
Qui di seguito la cronaca dellincontro.
Noi come i Rom
Liniziativa è partita poche ore prima dellinizio di Sukkot da parte della Comunità di Milano: ospitare nella Capanna eretta in piazza Cordusio una rappresentanza di Rom, soccorsi dalla Casa della Carità di Don Colmegna, per far sentir loro la nostra partecipazione alla loro situazione di sfollati.
Come leggiamo nel Levitico 23: 42 Abitate in Capanne per sette giorni
, giorni che ci ricordano la costante protezione di Dio quando anche noi fummo nomadi nel deserto, non solo, ma anche la precarietà della nostra sussistenza e sicurezza nelle nostre solide case.
Unoccasione per far sentire a questo gruppo di 55 persone, gli uomini che di volta in volta son costretti a passare la notte in sedi diverse, parrocchie o altri asili provvisori, le donne e i bambini in un altro centro, con solo la domenica da poter trascorrere insieme.
La nostra comunità ha deciso dunque assieme allautorità rabbinica di far entrare nella Sukkah i Rom accompagnati da don Massimo Mapelli del gruppo di don Colmegna, per dire loro come possiamo capirli ed essere loro vicini perché anche noi un tempo fummo nomadi, tremila e trecento ani fa, e anche noi, cosa ben più dolorosa, fummo e siamo stati e forse siamo tuttora oggetto di discriminazione e di allontanamento.
La porta della Sukkah è aperta, loro sono entrati con altra gente che incuriosita si chiedeva che cosa fosse quella specie di edificio di legno con al centro una grande tavola imbandita dove tutti erano bene accolti e invitati a entrare e a partecipare e a fare domande.
Noi come loro, ha detto Rav Rodal, che ha raccontato della situazione degli ebrei nel deserto, e del non disperare perché non può mancare la protezione di Dio, ne ha parlato Rav Arbib, che ha detto che si trattava di uniniziativa non politica, ma umana e religiosa perché univa la sacralità della Festa delle Capanne allo spirito di solidarietà: la Capanna come simbolo di accoglienza. Far sentire a queste sei persone – in rappresentanza degli altri che avevano preferito passare la giornata con la loro famiglia – che sedevano un po intimidite allaltro capo del tavolo e che hanno dimostrato di aver capito e recepito le parole che venivano loro rivolte, come la solidarietà sia un concetto difficile da mettere in pratica, significa partecipare, tentare di capire, di immedesimarsi nella loro tristissima e disperata situazione.
Ha detto: Noi non abbiamo la soluzione al vostro problema, ma vogliamo cominciare a capire quello che fa soffrire il prossimo.
Don Mapelli ha poi parlato della situazione concreta del gruppo di Rom di cui la Casa si fa carico: di provenienza rumena, alcuni di loro lavorano con permesso di lavoro, ma lintegrazione è difficile, e i pregiudizi spesso insuperabili rasentano il razzismo. E ha aggiunto rivolgendosi ai Rabbini: In questa sede è una parola che si può pronunciare. Voi sapete tutto. Adesso tocca a loro, domani chi sa
.
Neppure la separazione fra i coniugi è una cosa ignota alla nostra storia.
Ha poi detto alcune parole Luca, che parlava anche per i suoi compagni, sulla desolazione di vedersi respinti, nella ricerca di unabitazione, di un lavoro, anche nella scuola per i bambini.
Yasha Reibman ed Eugenio Scheck, gli organizzatori di questo incontro, hanno spiegato che si tratta di un gesto simbolico, come se fossimo uniti dallo stesso destino. E noi più di altri siamo tenuti a capire e a partecipare alla loro sofferenza. Noi e loro, che fummo insieme nei lager nazisti.