di Ilaria Ester Ramazzotti
Anche le parole, come gli umani, sono entità vive: a volte hanno un’anima, sorridono, si disperano, ingrassano, dimagriscono, viaggiano, sfioriscono… Sono sensibili o coriacee, malsane o limpide, specchio di stereotipi o pregiudizi ancora diffusi nella lingua italiana. Come ad esempio le parole ebreo, rabbino, sionismo… Perché nel XXI secolo “giudeo” significa ancora perfido e traditore? Perché chi “dice donna dice danno”? Basta sfogliare qualche Dizionario online e… trasecolare
“Epiteto ingiurioso, diffuso specialmente in passato in base a riprovevoli pregiudizi e stereotipi, per indicare una persona che, all’abilità e mancanza di scrupoli negli affari unisce attaccamento al denaro, avidità di guadagno e propensione all’usura”. La parola che corrisponde a questa definizione nel vocabolario online Treccani è “ebreo”. Ma suvvia, una rondine non fa primavera, non fasciamoci la testa prima di rompercela: e infatti il Dizionario mette le mani avanti e sottolinea che questa definizione fa riferimento “ad alcune qualità che la tradizione antisemita attribuisce agli Ebrei”, descrivendone il senso figurato, l’accezione spregiativa e uno degli usi del termine ancora presenti nella lingua italiana. La definizione principale usata per il termine ebreo, dice la Treccani, è “appartenente o relativo all’antico popolo semitico degli Ebrei, che occupò la Palestina sin dalla seconda metà del II millennio a.E.V., costituendosi in unità nazionale e religiosa e distinguendosi dai popoli confinanti soprattutto per il carattere monoteistico della sua religione”. E ancor più sinteticamente, un altro sito, il Wikizionario, definisce ebreo chi “professa l’ebraismo”.
Intendiamoci: non pretendiamo dai dizionari una qualche archeologia lessicale, né uno scavo nei cunicoli sepolti della Storia della Lingua. Si tratta, in fondo, sottolineano i vocabolari, di usi lessicali tuttora esistenti, perciò se ne fa menzione. Questa ricognizione prende come esempio Treccani e Garzanti, più interattivi e sensibili ai cambiamenti, consultabili con versioni online usatissime da giovani e studenti in fase di apprendimento sia linguistico sia civico, o ancora Wikipedia e il suo Wikizionario. E allora cosa accade per gli altri tomi sacri della lingua italiana? Quali i modi di dire ancora diffusi e quali gli usi particolari di alcuni vocaboli “sensibili”? Quali le accezioni speciali, gli stereotipi, i pregiudizi e ambiguità impliciti, poi “scivolati” nei volumoni?
Apprendiamo allora che lo stesso uso linguistico dispregiativo e sprezzante della parola “ebreo” viene fatto con le espressioni “giudeo” e “rabbino”, cui il Garzanti accosta il senso di “persona avara, avida”, ma sempre, attenzione, “secondo un’antica tradizione antisemita” e un’accezione particolare. La dizione “Giudeo”, seppur utilizzata più di rado, è usata in senso spregiativo anche a proposito della condotta tenuta dai Giudei alla morte di Gesù, con il significato di uomo perfido e traditore, viene riportato. Così, leggendo e vagabondando tra questi lemmi, potrebbe apparire meno evidente che si tratta di un uso negativizzante, ma il vocabolario giustamente lo segnala. Veniamo adesso alle definizioni primarie. Per il Wikizionario, “giudeo” è semplicemente il residente o il nativo della Giudea.
Sul Treccani, leggiamo che il lemma “rabbino” descrive “l’antica denominazione dei dottori della legge ebrei, oggi usata a designare i capi spirituali delle singole comunità, nelle quali, oltre a presiedere il culto e i principali riti e a dirimere le questioni dottrinali, hanno spesso un importante ruolo di rappresentanza di fronte alle autorità politico-amministrative. Per la legge italiana, spiegano, la figura del rabbino è anche quella di un ufficiale di stato civile, mentre nel solo ambito del cosiddetto ebraismo riformato si ha il femminile ‘rabbina’”. Il Wikizionario, su questa linea, aggiunge che “Elio Toaff è stato il rabbino più famoso d’Italia”.
E che dire dell’espressione Sionismo? Recita il dizionario Treccani: “…Nell’attuale pubblicistica politica, il termine è passato a indicare, con connotazione polemica, la presunta politica di intransigente chiusura del governo di Israele nei confronti del movimento per l’autodeterminazione del popolo palestinese”. No comment. E allora diciamolo. La verità che spesso dimentichiamo è che le parole hanno un’anima, a volte anche più di una. Le parole ridono, piangono, respirano, dimagriscono o ingrassano, si gonfiano e si sgonfiano, muoiono e rinascono, ricordano e viaggiano nel tempo, si usurano, si sporcano e poi si ripuliscono, impallidiscono o assumono nuove coloriture, fioriscono, sfioriscono… Le parole possiedono un’intelligenza propria, sono entità vive, hanno un corpo, delle gambe per camminare, dei denti per mordere, delle mani per accarezzare, hanno una vita pubblica e una privata, possiedono una salute di ferro o delle tare ereditarie… Come appunto ci dimostra questo vagabondaggio incuriosito tra le pagine dei maggiori Dizionari della Lingua Italiana.
Continuando allora a sfogliare le pagine web, troviamo un’altra parola facilmente parallelizzabile col destino lessicale dell’“ebreo”: è la parola “femmina”, che ha un significato stigmatizzato e negativo, almeno in una delle accezioni con cui viene intesa e adoperata. Un noto dizionario dei sinonimi e dei contrari, recita secco: “Essere umano di sesso femminile, talora con sfumatura spregiativa: discorsi da femmina”. Come in altre pubblicazioni, qui non ci sono riferimenti a stereotipi, pregiudizi o “antiche tradizioni”. Un altro volume riporta la definizione biologica di “individuo umano o animale portatore di gameti femminili che possono essere fecondati da quelli maschili”, e quella di “essere umano di sesso femminile, donna, bambina: hanno già un figlio maschio, vorrebbero una femmina”. Non manca la “sfumatura negativa”. Per spiegarla si cita Petrarca, che nel Canzoniere scrisse: Femina è cosa mobil per natura. Segue tuttavia la sfumatura positiva: “Donna fisicamente dotata, molto attraente: è molto femmina”. Così, se la sfumatura negativa è supportata da una citazione dal notevole valore letterario e del XIV secolo, sembrerebbe che la “sfumatura positiva” sia insita nell’essere un ragguardevole oggetto di attrazione e di desiderio. Al punto successivo, apprendiamo l’interessante sfumatura che ci svela quanto dire “femmina” indichi anche un “uomo dal carattere debole e vile”. Sarà così anche oggi, nel XXI secolo? Il dizionario sembra non registrare allo stato attuale mutamenti sostanziali. Il Treccani dice che il lemma in questione può indicare inoltre una “donna adulta”, ma che nel linguaggio comune è per lo più spregiativo: una femmina disonesta, una mala femmina, femmina fatale, eccetera.
Questa volta, viene addirittura scomodato Dante Alighieri, che distinse i due vocaboli italiani “donna” e “femmina” secondo la prassi della sua epoca (“Non ad ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine”, da Vita Nova). Anche Boccaccio, fedele a questo uso antico, nel Decamerone distingueva fra femine e donne. Un altro noto vocabolario non dimentica di citare Torquato Tasso, che nella Gerusalemme Liberata scriveva che “femina è cosa garrula e fallace”. Abbiamo trovato altre dotte citazioni snocciolate senza nessun filtro storico o culturale, buttate lì così, all’ammasso. Il Wikizionario invece non riporta alcuna accezione spregiativa di “femmina”, bensì cita il versetto biblico “D-o creò l’uomo a sua immagine, a immagine di D-o lo creò, maschio e femmina li creò”(Genesi 1:27). Andare a donne, viene invece detto di uomini che cercano avventure amorose. Proverbi: “chi dice donna dice danno”, “auguri e figli maschi!”; e i detti italiani ammoniscono che “chi vuol vivere e star sano, dalle donne stia lontano”.
Ma sarà poi così vero che l’uso comune contempla tuttora certe accezioni e sfumature? Perché non viene indicato esplicitamente che si stanno citando riferimenti a stereotipi o ad “antiche tradizioni” che rientrano in verità nell’ambito della Storia della Lingua? Ogni lingua non è forse un processo dinamico che cambia nello spazio e nel tempo? Il lessico non parla forse sempre di noi, soggetto anch’esso all’implacabile legge dei secoli? Ecco perché un dizionario dovrebbe essere, in definitiva, il santuario della sensibilità linguistica che si rinnova con lo scorrere dei decenni.