di Daniel Fishman
Ricordi giovanili: ai campeggi dell’Hashomer Hatzair quelli di Torino avevano le tende meglio tirate ed erano gli unici a completare tutto il piano di lavoro. “Precisetti”, li definirebbero i Milanesi, mai per altro troppo ben disposti a parlare bene di Torino. Vorrei però oggi sfatare questo pregiudizio e mettermi tra quelli che pensano che tra le grandi città italiane, Torino sia la città più effervescente ed interessante.
Entrato nella fase “post Fiat”, il capoluogo piemontese è stato costretto a cambiare pelle, a reinventarsi, ed ha così liberato energie inaspettate. Ha vinto la sua grande scommessa, quella delle Olimpiadi invernali, mentre a Milano l’Expo, una partita dei “semper quei”, non ha minimamente coinvolto la cittadinanza. Chi ha visto i Festival delle Luci a Torino può farne un paragone impietoso rispetto alle penose luminarie viste a Milano, mentre sono evidenti i risultati di una riuscita politica culturale e di integrazione avvenuta a Torino mentre Milano si è dovuta accontentare dei coprifuochi di De Corato.
Se è vero che gli Ebrei prendono le caratteristiche del posto dove abitano, posso però notare anche un altro fattore. Entrando a Torino si rimane colpiti da quante bandiere italiane siano esposte sui balconi. In nessuna altra città d’Italia si è visto un tale dispiegamento di sentimento nazionale ed anche arrivando nella Comunità ebraica in Via S. Anselmo (ma perché gli indirizzi delle Comunità ebraiche sono spesso dedicati ai santi?!), si nota una bandiera italiana ed una mostra sul contributo degli ebrei piemontesi per l’Unità d’Italia.
La prima persona che incontro è Massimo Bonmassari, che si occupa delle cucine della Comunità. Con lui entro subito nel cuore delle cose.
“Perché non fai una attività di catering casher?”, gli chiedo.
“Non ci sono i numeri”, ed effettivamente nel considerare quanti bar/bat mizvà o matrimoni ci sono a Torino, vien da dire che “Moses is Moses, business is business”.
Edoardo Segre era il candidato presidente della lista Comunitàttiva che ha perso le recenti elezioni comunitarie. Si occupa di intermediazione Italia-Israele ed infatti l’ho incontrato a Milano al Forum Italia-Israele e poi a cena da Denzel. Davanti ad un piatto di humus gli ho dato un preciso brief: voglio raccontare della Torino ebraica e del suo futuro, lasciando ad altri i perversi resoconti delle polemiche. Conseguentemente abbiamo definito un panel di persone da incontrare a Torino. L’incontro che avviene nei locali comunitari è sintomatico di una situazione che negli ultimi anni è stata molto conflittuale. Ogni parola dei presenti è ben pesata, e prima di esprimersi in maniera critica o presentando un punto di vista personale, si vede che tutti cercano un “eye contact” o un consenso verbale con gli altri presenti.
C’è anche Beppe Segre, il neo presidente. La sua famiglia rappresenta la memoria storica della Comunità ebraica di Saluzzo. Per molti versi è il prototipo dell’ebreo torinese, molto italiano, ma anche molto ebraico nel rivendicare il proprio patrimonio fatto di riti e storie piemontesi, molte, antiche, radicate. Aggiunge Shemuel Lampronti, del Comitato Direttivo di Anavim, la lista che ha vinto le elezioni: “Qui a Torino anche i Kippurjuden, magari totalmente secolarizzati, hanno il piacere di ricordare il rito Apam (di derivazione francese), piuttosto che il particolare niggun di una canzone del Seder che facevano da piccoli”.
Voglia di normalità
È giornalisticamente facile riassumere gli scontri comunitari torinesi di questi ultimi anni usando gli stereotipi laici-religiosi, destra-sinistra, giovani-anziani. Premesso che non è vera nessuna di queste dicotomie, mai in questo incontro ho avuto l’impressione di essere un “corrispondente di guerra”. Ho visto persone ben disposte, toni pacati ed argomentazioni ben motivate. Le forti personalità del past president e dell’ex rabbino capo, hanno condizionato oltre modo le vicende comunitarie. E quando chiedo al nuovo presidente Segre se vi sono forti messaggi o azioni che vuole intraprendere a inizio mandato, comincia col dirmi che come prima iniziativa ha confermato quanto deciso dalla precedente Giunta rispetto ad una manifestazione per Gilad Shalit. E che fondamentalmente dopo un periodo fatto di troppe parole e polemiche, pensa ad una Comunità che sia semplicemente più normale.
Riservato, tranquillo, propugna un understatement che bene si sposa con il suo carattere. D’altronde, a Torino così come in altre Comunità, sono i numeri e la realtà a farla da padroni. Le rendite dei titoli e degli affitti non rendono molto in questo periodo. La scelta di gestire “ebraicamente” e non con logiche di mercato, la Scuola (considerata come una eccellenza) e la Casa di Riposo, impongono lo sforzo di trovare altre forme di entrata.
La metà della Comunità è over 50 e la crisi economica ha colpito duro anche da queste parti. Lo sottolinea Gimmy Ottolenghi, private banker di mestiere, e giovane neo-consigliere con la delega al fund raising. “C’è poco tempo da investire in diatribe personali o di ruolo e bisogna pensare a nuove forme di finanziamento”. In questo la Comunità può contare su di un ottimo rapporto con le Istituzioni, ancora di più ora che il Sindaco è Piero Fassino, di cui sono noti i consolidati rapporti con la keillah locale.
Le attività comunitarie presentano un ricco panel di incontri, che testimoniano il forte legame degli ebrei con il Comune, coi Valdesi, col Salone del Libro, per il 150° dell’Unità… Il tema Shoah-Resistenza-Antifascismo è elemento di forte centralità in molte iniziative ed anche questo spiega molto dell’identità degli ebrei torinesi. Le lapidi al Melech Carlo Alberto, la gratitudine per lo Statuto Albertino, il progetto incompiuto della Sinagoga – ora Mole Antonelliana e splendido Museo del Cinema, mi sembra che siano sintomatici di un forte “sguardo all’indietro” di questa comunità. Lo ammettono anche i miei interlocutori. “Siamo storicamente abituati a paragonare il presente con quanto si fece qui in passato. Un rabbino rispetto ad un altro rabbino precedente, un presidente rispetto ad un altro, e meno a vedere cosa accade da altre parti e con altre visioni”.
Per questo appare interessante il tentativo di Rav Birbaum, arrivato a Torino in conseguenza della sua attività di responsabile dell’Istituto di formazione post rabbinica Amiel. È una vera novità, un nuovo benchmark di riferimento. “La Rabbanut al servizio delle persone – l’outreach” sono le parole d’ordine di questo Istituto ebraico internazionale.
Birbaum ed il suo vice, rav De Wolff, hanno strutturato, in accordo con il Consiglio, dei corsi di Bar-Bat mitzvà, un progetto rivolto ai 18-32 anni, corsi di ebraismo basic, corsi della Scuola rabbinica, il progetto Yachad in collaborazione col Dec rivolto alle famiglie in cui uno dei coniugi non è ebreo, e un Beth Hamidrash per le donne.
Vedo molta buona volontà nelle facce e nei toni dei miei interlocutori. Per questo sono di nuovo sicuro che i torinesi completeranno tutto il piano di lavoro.