di Anna Balestrieri e Giovanni Panzeri
Uno storico convegno all’Università Gregoriana. Nuovi documenti sul Pontificato di Pio XII. Il loro significato per le relazioni ebraico-cristiane.
Le controversie storiche e teologiche riguardanti Papa Pacelli e il Vaticano durante il periodo della Shoah. La “genealogia del silenzio” della Santa Sede. A tre anni dall’apertura degli Archivi Vaticani, un importante convegno analizza i documenti resi pubblici per volontà di Papa Francesco. Emergono così analisi illuminanti per capire le luci e le ombre di una pagina di Storia ancora tutta da approfondire e da riscrivere. Sarfatti: «La Santa Sede fu il maggior punto di arrivo di notizie sulla Shoah in Europa»
«È un onore per me dare inizio a questa conferenza internazionale. Oltre tre anni fa Papa Francesco diede ordine di aprire agli studiosi le sezioni dell’Archivio pontificio dedicate al pontificato di Pio XII. Dopo tre anni di ricerca possiamo finalmente fornire un primo rapporto». Con queste parole il vescovo ausiliare di Reims, Étienne Vetö, ha aperto i lavori di un convegno storico, destinato a fare luce sulle azioni, strategie e ambiguità del papato durante l’epoca più buia della storia ebraica.
Il convegno, tenutosi presso l’Università Pontificia Gregoriana di Roma tra lunedì 9 e mercoledì 11 ottobre, ha visto l’intervento di numerosi storici, teologi, rappresentanti della Chiesa e della Comunità Ebraica, nazionale e internazionale, su sette temi che riguardano le ragioni e le circostanze dietro la posizione neutrale ufficialmente adottata dal papato verso il regime nazista, i suoi metodi nell’azione di soccorso verso gli ebrei, e la protezione offerta dopo la guerra a criminali nazisti. Qui una sintesi degli interventi più significativi.
Papa Pio XII e la strategia del “silenzio”
Un primo importante aspetto che è stato analizzato riguarda le motivazioni e convinzioni che spinsero la Chiesa di Pio XII ad intraprendere una politica di neutralità verso il regime nazista.
«Il Papa avvertiva in modo forte la pressione al silenzio che veniva dal mondo cattolico tedesco e a favore del mondo cattolico tedesco – ha spiegato l’archivista vaticano Giovanni Coco -: a torto o a ragione il silenzio veniva considerato necessario fino all’autocensura. Quando, sette giorni dopo il rastrellamento di Roma del 16 di ottobre 1943, i soldati tedeschi diffusero la voce che il Papa sarebbe stato d’accordo sulla deportazione, notizia priva di ogni fondamento, venne preparata una nota di protesta. All’ultimo momento però vennero cancellate le parole di protesta, da riferire ‘se mai, a voce’».
«La situazione non cambiò in modo significativo dopo la liberazione di Roma – continua Coco – (…) e bisognerà attendere il 2 marzo 1945 perché la parola ‘sterminio’ compaia in un documento vaticano ‘in uscita’».
In realtà il pontefice aveva fatto riferimento in altre occasioni alla persecuzione degli ebrei, ma in modo talmente indiretto, e soffocato dalla stampa fascista, che le sue dichiarazioni non furono realmente significative, se non come prova a posteriori tanto della sua opposizione personale al nazismo quanto del fatto che la Chiesa fosse cosciente delle atrocità che venivano commesse.
La Chiesa e l’antigiudaismo
Questa strategia, tuttavia, non era motivata solo da ragioni diplomatiche o “umanitarie”, giuste o sbagliate.
Infatti la Chiesa del tempo, almeno fino alla dichiarazione Nostra Aetate del 1965, era pesantemente influenzata dall’antigiudaismo “religioso”, che attribuiva all’ebraismo il peccato originale dell’assassinio di Cristo e si sovrapponeva spesso e volentieri a sentimenti antisemiti, e dal fatto che vedeva la protezione dei cattolici come una priorità rispetto a quella dei membri di altre religioni.
Queste tendenze sono ben espresse dagli interventi degli storici David Kertzer e Nina Valbousquet, che descrivono le reazioni del Vaticano alle deportazioni della popolazione ebraica rispettivamente in Francia e Italia. In particolare dai documenti emergono le figure del cardinale Angelo dell’Acqua e di Valerio Valeri, allora nunzio apostolico in Francia, che a più riprese limitarono, deviarono o negarono le richieste d’aiuto indirizzate da membri della comunità ebraica al papato, sminuendo i segnali d’allarme o di protesta provenienti dal clero locale, in generale facendo in modo di evitare che qualunque forma d’aiuto ricevuta da ebrei non convertiti potesse essere fatta risalire ufficialmente al pontefice.
Dell’Acqua in particolare, come riporta Kertzer, era considerato il principale consigliere del pontefice in materia di questioni ebraiche. E la sua posizione in materia può essere ben riassunta dai consigli che diede a Pio XII, su come rispondere alla deportazione degli ebrei di Trieste. “Non consiglio un intervento ufficiale della Chiesa a favore degli ebrei in Venezia Giulia. Un intervento ufficiale della Santa Sede potrebbe indurre i leader nazisti nell’idea, assolutamente priva di fondamento, che la Chiesa è d’accordo con la comunità ebraica internazionale, che predica la distruzione del popolo tedesco”.
Dallo studio dei documenti è emerso, in opposizione a figure come quelle di Dell’Acqua o Valeri, il grande impegno del Cardinale Giovanni Mercati, bibliotecario e archivista vaticano descritto dalla dottoressa Annalisa Capristo. Di convinte tendenze antitotalitarie, la sua azione fu fondamentale nel garantire la protezione vaticana a numerosi studiosi, soprattutto, ma non esclusivamente, convertiti.
La priorità era salvare gli ebrei convertiti
Un aspetto fondamentale che è emerso dalla relazione del prof. Robert Ventresca (King’s University College) è che i nuovi documenti recentemente de-secretati dal Vaticano rivelano «una tendenza contraddittoria e settaria nei programmi di soccorso vaticani, in particolare per quanto riguarda gli ebrei». In poche parole, mentre è innegabile che la Chiesa abbia prestato soccorso agli ebrei, è oggi evidente che la priorità nei soccorsi era data agli ebrei convertiti al cristianesimo, e veniva fatto uno sforzo significativo nel capire se la loro conversione fosse “sincera o no”.
“Politica dell’imparzialità” della Santa Sede
Della “politica dell’imparzialità” della Santa Sede ha parlato Gabriele Rigano, professore associato di storia contemporanea a Roma Tre, che ha tracciato un parallelismo tra l’atteggiamento di Papa Benedetto XV durante la prima guerra mondiale nei confronti del genocidio armeno all’atto dell’occupazione tedesca del Belgio e l’omertà di Pio XII. Nonostante non vi siano “documenti archivistici che attestino una programmazione, è evidente che venga applicato un modello su un contesto diverso”. Il primo “grande silenzio” di Pacelli, accolto con sdegno dai vescovi polacchi, avvenne in occasione dell’occupazione tedesca della Polonia. Persino L’Osservatore Romano identificò allora un’analogia, tracciando una “genealogia dei silenzi” della Santa Sede a partire dalla Grande Guerra.
E poi c’è la questione dell’enciclica perduta Humani Generis Unitas, commissionata da Pio XI all’americano John LaFarge. Philip Cunningham della Saint Joseph University di Philadelphia, esperto di relazioni tra cattolici ed ebrei, ha presentato i documenti originali della bozza ritrovati negli Archivi vaticani, in cui si diceva che il razzismo negava la verità fondamentale che esista un solo Dio per tutti i popoli e per tutte le razze. Veniva anche detto che nella storia della razza umana solo un popolo ha avuto una chiamata degna di essere definita tale e questo è il popolo ebraico, che è stato scelto dall’Altissimo per preparare la strada. Nell’affermare l’esistenza di un’alleanza tra il popolo ebraico e quello cristiano, nella bozza si intravvedono tuttavia elementi di condanna al “peccato originale del popolo ebraico”. Ma Pacelli decise di non pubblicare l’Enciclica.
Il soccorso vaticano agli ebrei
Durante il convegno si è ovviamente parlato degli aiuti umanitari forniti agli ebrei. Il professor Tommaso Dell’Era dell’Università della Tuscia di Viterbo ha analizzato la politica degli aiuti umanitari forniti dal “Soccorso Vaticano”, concentrandosi sull’atteggiamento adottato dalla Santa Sede di fronte alla persecuzione antisemita nelle università italiane e tout court. Oggetto di analisi è il memorandum del 1938 scritto dal rettore della Sapienza Del Vecchio a G. B. Montini, nato dalla proposta di un professore ebreo dell’Università di Roma che si stava convertendo al cattolicesimo. Questi suggeriva la conversione in massa di tutti gli ebrei italiani.
Un’altra ricerca è quella del professor Hubert Wolf e del suo team, nel contesto del progetto Asking the Pope for Help, che si è occupato di classificare, studiare e ordinare le oltre 1593 petizioni di aiuto indirizzate al pontefice dalle vittime delle persecuzioni, recuperate tra i nuovi documenti resi disponibili dalla Chiesa.
Queste lettere che, vista la mole delle petizioni, erano inevitabilmente filtrate dai funzionari della curia romana, dimostrano che la responsabilità di Pio XII nel rispondere e prendere decisioni sui singoli casi era in realtà molto limitata.
Le reti di aiuto a livello nazionale
Liliana Picciotto, storica della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC), è poi intervenuta per fornire un’idea della dimensione del fenomeno a livello nazionale, mettendo a disposizione i dati raccolti sulle famiglie di sopravvissuti in oltre un decennio di lavoro nel contesto del progetto “Salvarsi” per il CDEC. «Per quanto riguarda l’aiuto della Chiesa verso gli ebrei, questo si concentrò soprattutto nell’area di Roma, dove risiedevano la comunità ebraica più numerosa d’Italia e il maggior numero di istituzioni ecclesiastiche». «Comunque la questione del pubblico silenzio della Chiesa, confrontato al numero di singoli interventi privati verso alcune migliaia di Ebrei, non può essere accantonata – conclude Picciotto – e non può neanche essere dimenticato il loro silenzio su tutte le vicende precedenti: le leggi speciali, le persecuzioni e gli attacchi che investirono gli ebrei d’Europa nel corso degli anni Trenta».
Il Papato e il rastrellamento del ghetto di Roma
Durante il suo intervento, poi, il professor Osti Guerrazzi, dell’Università di Padova, ha seriamente messo in dubbio la teoria secondo cui l’azione del papato fu fondamentale nel limitare il numero di ebrei rastrellati durante l’incursione nazista nel ghetto di Roma, il 16 ottobre 1943.
I nazisti, secondo il professore, catturarono solo un migliaio di persone (rispetto alle 8000 pianificate) a causa della scarsità di truppe e risorse a disposizione e perché si resero conto «che continuare sarebbe stato inutile, dato che gli ebrei rimasti erano già stati tutti avvertiti e chi era riuscito a scampare alla cattura era ormai in fuga. La popolazione romana inoltre, aveva aiutato molti ebrei a nascondersi». «La verità è che le SS arrestavano chi volevano, quando volevano, senza alcun riguardo per l’autorità del pontefice – continua Guerrazzi – e il silenzio del Papa fu motivato soprattutto dalla paura. Infatti in quel periodo in Vaticano si riteneva possibile un attacco diretto da parte di Hitler, con l’obiettivo di rapire il Papa e portarlo in Germania». I documenti emersi dall’Archivio vaticano sembrano confermare quest’ultima asserzione.
Battesimi forzati: se il soccorso rischia di diventare rapimento
A guerra finita la Chiesa si rifiutò di riportare alle famiglie ebraiche un certo numero di bambini ebrei, battezzati nel tentativo di sottrarli alle persecuzioni naziste, nella convinzione che la salvezza dell’anima del figlio avesse priorità sul diritto dei genitori.
Matthew Tapie della Saint Leo University ha voluto risalire alle origini di questo comportamento, scoprendo che non fa parte delle dottrine fondanti della Chiesa, e che teologi come Tommaso d’Aquino erano fermamente contrari alla pratica definendola “una violazione della legge naturale”. Ciò cambiò durante il pontificato di Benedetto XIV che, per rispondere al crescente numero di domestiche cristiane che battezzavano di nascosto i figli delle famiglie ebraiche per cui lavoravano, stabilì che sarebbe stato “virtuoso” battezzare il bambino se “prossimo alla morte” o “abbandonato”. Il problema è che non definì mai con precisione cosa intendesse in entrambi i casi, lasciando libertà di decidere alle autorità ecclesiastiche locali. Oggi la pratica non esiste più, ma il dibattito teologico sul bisogno di “salvare” gli ebrei dalla loro stessa religione è ancora aperto.
La Shoah e la diplomazia vaticana
Nel suo intervento Michele Sarfatti, storico per molti anni alla Fondazione CDEC, ha parlato delle centinaia di informazioni e lettere che giunsero in Vaticano nel corso del 1942, descrivendo in termini sempre più drammatici e tristemente familiari lo sterminio della comunità ebraica europea. L’esorbitante numero di lettere scoperte negli archivi vaticani ha reso, afferma Sarfatti, «la Santa Sede il maggior punto di arrivo di notizie sulla Shoah in Europa».
Le informazioni arrivano tramite diplomatici, funzionari della comunità ebraica, petizioni d’aiuto ma soprattutto tramite i cappellani militari.
Il 18 settembre 1942, Giovanni Montini (il futuro Paolo VI), di ritorno da Varsavia riportò “I massacri degli ebrei hanno raggiunto proporzioni e forme esecrande e spaventose”. L’unica reazione pubblica della Santa Sede fu un riferimento estremamente indiretto pronunciato da Pio XII alla radio nel dicembre 1942.
«Ciò non costituì un atto di solidarietà esplicita – dichiara Sarfatti -: non denunciò i capi nazisti, non invitò gli Alleati a difendere gli ebrei, non ordinò ai cattolici di proteggerli».
La responsabilità vaticana nella fuga dei nazisti
Gerald Steinacher della University of Nebraska-Lincoln si è concentrato sulle responsabilità del Vaticano nella fuga dei criminali di guerra nazisti dalla giustizia alleata, analizzando il ruolo in questo contesto della commissione Pontificia Opera di Assistenza. Dal 1948, la Chiesa, orientata al perdono e alla clemenza, non si limitò a farsi promotrice della ricostruzione della Germania distrutta. Grazie ad una “sezione stranieri” interna al Vaticano, con l’aiuto della Croce Rossa, permise a chiunque lo desiderasse di scappare, diventando così popolare tra i collaborazionisti in fuga verso il Medio Oriente e le Americhe. In questo modo trovò salvezza il comandante di Sobibor e Treblinka Franz Stangl. Nel convegno sono state ricordate anche le vicende di Erich Priebke e dell’aiuto fornito dal Vaticano e da vescovi del sud Tirolo per la sua fuga in Argentina. Suzanne Brown-Fleming dell’United States Holocaust Memorial Museum ha proseguito nell’analisi della politica di clemenza della Santa Sede nel dopoguerra. Veniva negato l’occhio per occhio come modus operandi con riferimenti espliciti all’errore della pratica di una “legge mosaica” vendicativa e alla necessità della pietà e della carità in un processo di ricristianizzazione del mondo stuprato dal “fantasma satanico” nazista. Montini e Tardini spinsero affinché non vi fosse una demonizzazione della totalità del popolo tedesco, cercando di riconquistare i fedeli cattolici perduti.