di Sara Pirotta
“Il Giorno della Memoria è stato un importante passo della comunità nazionale per dedicare un momento di riflessione a quello che accadde in Europa agli ebrei una sessantina di anni fa. L’ho sempre vista come una giornata che serviva non tanto agli ebrei, quanto alla società in generale. Gli ebrei, per ricordare i loro morti, non hanno bisogno di una giornata particolare, né di cerimonie pubbliche, né di concerti, né di spettacoli teatrali. Non credo che il Giorno della Memoria rivesta alcun significato di ‘retribuzione simbolica per il mondo ebraico’, come dice lo storico Ernesto Galli della Loggia”.
Una giornata pensata per la società civile, è questa l’opinione della storica e ricercatrice Liliana Picciotto sul significato del 27 gennaio. “La Giornata, per come la vedevo nel momento della sua istituzione sarebbe dovuta essere un’operazione di educazione alla conoscenza, allo studio della storia, alla lettura di un passato dove nessuno si può definire non responsabile per ciò che è avvenuto. In una società sana, i figli prendono su di sé la responsabilità delle mancanze dei padri”.
Picciotto sottolinea, però, che nella messa in pratica della Legge 211, la celebrazione del ricordo ha preso il sopravvento, spesso tralasciando l’analisi dei fatti storici, evidentemente più grave e scomoda. “Ora accade che la Giornata si è ritualizzata, dovunque si svolgono manifestazioni ed eventi che commuovono, ma non creano conoscenza, né coscienza. Quante persone sanno che la Shoah è stata preparata da una lunga storia di antigiudaismo che ha agitato per secoli l’Europa? Quanti sanno che il regime fascista in Italia si è alleato con il nazismo per gli arresti degli ebrei? Perfino la parola ‘fascista’ è in disuso, si parla solo di ‘Shoah’ come fosse un fungo cattivo comparso a un certo punto della storia in mezzo al nulla.
“Quando assistiamo alle commemorazioni, agli eventi intorno al tema, non siamo neanche più sicuri che si stia parlando di noi ebrei, succede di sentire a volte un senso profondo di estraniazione che affligge ormai molti”. Un senso di estraneità e di ridondanza che rischia di travolgere anche le scuole, come sottolineava Galli Della Loggia.
“C’è, inoltre, un’esposizione mediatica dell’idea di Auschwitz, un sovraccarico di significati, un sovrapporsi di iniziative, che stanno creando stanchezza e assuefazione nei giovani. Nelle scuole, dove la giornata, nei primi anni, rivestiva grande importanza, ormai si cerca di parlare d’altro, di cambiare tema, la quota di saturazione sta raggiungendo il livello di guardia”. Da ultimo, la ricercatrice replica a Galli Della Loggia in merito alla posizione della comunità ebraica verso la proposta da lui lanciata nel dicembre ‘99. “Galli Della Loggia, che peraltro stimo come pensatore, non deve stupirsi del disinteresse mostrato allora dalla comunità. La tiepidezza era ovvia, data la natura rituale dell’iniziativa, non vi vedo grande diversità dall’istituzione di un Giorno della memoria”.