di Maria Eleonora Tanchis
Cinque nuovi alberi nel Giardino dei Giusti: sono per Dallaire, Karski, Sholl, Solzenicyn, Wegner
lGi uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”. Ricordando il pensiero di Giovanni Falcone, Gabriele Nissim, presidente del Comitato della foresta dei Giusti, inaugura l’incontro al Franco Parenti di Milano, seguito alla cerimonia annuale di dedica di cinque piante della memoria nel Giardino dei Giusti avvenuta il 7 aprile, per omaggiare “altrettanti testimoni inascoltati che hanno denunciato i genocidi e tentato di scuotere l’indifferenza delle società e degli individui”. In questa occasione vengono commemorati Romeo Dallaire, comandante del contingente Onu in Rwanda, Jan Karski, agente della resistenza polacca, Sophie Sholl, membro del movimento d’opposizione al nazismo “La Rosa Bianca”, Aleksandr Solženicyn, Premio Nobel per la letteratura nel 1970, e Armin Wegner, intellettuale e volontario medico tedesco. Cinque personaggi di incredibile valore e cinque storie di cui è essenziale tramandare la memoria. Per raccontare quella del generale Romeo Dallaire, unico fra i premiati ad essere ancora in vita era presente Françoise Kankindi, presidentessa dell’associazione Bene-Rwanda onlus. La giovane Rwandese ricorda come il generale canadese si trovò ad assistere ad uno dei massacri più cruenti del XX secolo senza poterlo fermare. Egli richiese aumenti di truppe, permessi per poter confiscare gli armamenti clandestini destinati all’uccisione dei ribelli, ma quel che ottenne furono solo risposte negative. Si rese conto in brevissimo tempo che quel che gli veniva realmente chiesto dalle forze di pace era stare in disparte ed aspettare che il genocidio facesse il suo corso. Al ritorno dalla missione denunciò apertamente l’operato dell’Onu e, non riuscendo a dimenticare gli orrori visti, tentò il suicidio.
La figura romanzesca di Jan Karski è stata narrata da Ewa Wierzyska, supervisore del progetto “Karski Unfinished Mission” del museo di Storia polacca di Varsavia. Inviato dallo Stato “fantasma” polacco per tutta Europa, fu arrestato dalla Gestapo nel 1940. Per riuscire a non parlare sotto le torture naziste, tentò di tagliarsi i polsi, ma venne salvato dalle guardie carcerarie. Grazie ai partigiani riuscì a fuggire dall’ospedale e a riprendere la sua attività. Nel ‘42 riuscì ad infiltrarsi dentro il ghetto di Varsavia, dove raccolse preziose informazioni sui campi di concentramento. Fu così che nacque il “Rapporto Karski”, presentato alle figure politiche più importanti dell’epoca. A guerra finita, quando tutti quei governanti si mostrarono inorriditi dalle prime rivelazioni riguardanti lo sterminio, egli potè affermare che la Shoah fu il “secondo peccato originale compiuto dall’umanità”, proprio perché l’umanità stessa fece calare una cortina di omertà sugli orrori commessi dal regime nazista. Per avvalorare questa tesi è intervenuto il presidente della Comunità ebraica di Milano Roberto Jarach, il quale ha evidenziato come vi siano tuttora domande senza risposta. Ci si chiede, ad esempio, perché la Croce Rossa Internazionale non sia mai intervenuta per fermare le deportazioni, o ancora, perché le resistenze europee non abbiano mai danneggiato i binari delle ferrovie che conducevano in Polonia. Altra figura di primo piano nel panorama dell’antinazismo fu Sophie Sholl, giovane studentessa che pagò con la vita la sua appartenenza al gruppo di resistenza universitaria “Weise Rose” di Monaco, il quale pubblicò una serie di volantini di aperta denuncia verso il regime, soprattutto contro la politica razzista ed antisemita. Franz Muller, unico sopravvissuto del gruppo, ha raccontato che in principio la ragazza entrò entusiasticamente a far parte nelle file della Gioventù Hitleriana, e di come altrettanto energicamente ne diventò una delle più grandi oppositrici. Senza mezzi termini Muller spiega candidamente che le organizzazioni giovanili “erano una merda, proprio come il colore delle loro divise”.
A ricordare l’impegno letterario contro le violenze perpetuate dal regime stalinista all’interno dei gulag c’era il figlio di Aleksandr Solženicyn. Matematico e drammaturgo russo, venne arrestato dopo aver criticato Stalin in una lettera privata e condannato ad otto anni di prigionia e a tre di esilio (raccontati nel suo capolavoro Arcipelago Gulag, che gli fruttò il Nobel). Ignat lo evoca con commozione, e puntualizza che l’obiettivo perseguito dal padre “non fu tanto quello di tramandare la memoria di quanto gli accade, quanto di vedere le conseguenze pragmatiche della memoria nella realtà”.
Diverso è invece il destino per Armin Wegner, definito dagli organizzatori il “supergiusto”, unico testimone del genocidio degli Armeni (che nel 1915 documentò fotograficamente e denunciò agli occhi del mondo) e autore di una lettera di protesta contro le persecuzioni antisemite indirizzata direttamente a Hitler, che gli costò torture prima ed esilio poi. Come ha confidato il figlio, egli fu vittima della più grande sofferenza che può recare la memoria di simili eventi. Scrittore di professione, non solo non riuscì più a scrivere ma non volle parlare delle sue esperienze nemmeno in famiglia. Si capisce ascoltando tali parole la valenza pragmatica di tali eventi, il vero significato delle testimonianze inascoltate che ora riescono ad essere tramandate. Ma non solo.
Grazie a questo evento il ricordo dei personaggi premiati si imprime nella nostra terra, mette le radici, si prepara ad innalzarsi (veramente) verso il cielo. Perché, come dice Nissim, in fondo le idee che divengono materialmente immortali sono la “vera forma di laica resurrezione”.