Statale di Milano: la paura dei Propal condiziona la vita universitaria

Italia

di Redazione

“Era giusto dare voce a questi ragazzi e poi se non l’avessimo fatto magari avrebbero potuto rovinare la cerimonia”. Queste le parole usate da una delle organizzatrici della cerimonia di consegna delle borse di ricerca di Fondazione Veronesi per giustificare lo spazio dato in apertura dell’evento a due rappresentanti del collettivo studentesco che hanno propalato le solite calunnie anti-israeliane. Una debacle culturale degna degli anni Trenta, un cedere alla protervia e alle mistificazioni antisioniste e antisemite. Fa ancora più male in questo caso, dato che la madre di Paolo Veronesi, figlio di Umberto e presente alla cerimonia,  è una sopravvissuta al lager di Bergen Belsen, Sultana Razon Veronesi.

Questa la lettera che abbiamo ricevuto da una nostra lettrice:
Volevo segnalare un brutto episodio avvenuto ieri (15 maggio, ndr) all’Università Statale di Milano.
Ho partecipato alla cerimonia di consegna delle borse di ricerca di Fondazione Veronesi, ospitata dall’Università Statale di Milano. Si tratta di un appuntamento istituzionale, di un’occasione per celebrare la ricerca scientifica italiana. L’evento si apre con due rappresentanti del collettivo universitario, chiamati sul palco a spiegare il perché della loro protesta, che si lanciano in un monologo sul “genocidio” dei palestinesi, sul dovere morale di combattere il sionismo e interrompere i rapporti con le università “militari” israeliane e invitano tutti a un momento di riflessione sulla nakba, ovvero la catastrofe, ovvero la nascita dello Stato d’Israele. I due ragazzi scendono dal palco tra qualche applauso, ringraziati della conduttrice per le loro importanti parole. Il microfono passa poi a Paolo Veronesi e alle diverse autorità presenti. Tutti parlano dell’importanza della ricerca, dei suoi incredibili progressi, del ruolo della conoscenza per costruire una società migliore. Nessuno dice una parola per dissociarsi dalle parole con cui si è aperta la cerimonia, che sono l’opposto dello spirito scientifico che si vuole celebrare. All’uscita chiedo a una delle organizzatrici perché abbiano fatto iniziare l’incontro in questo modo. Mi guarda seccata: “perché le ha dato fastidio?” “Molto, le dico”. “Beh”, mi risponde, “era giusto dare voce a questi ragazzi e poi se non l’avessimo fatto magari avrebbero potuto rovinare la cerimonia”. Io credo che più di così non si sarebbe potuta rovinare, ma temo, ed è questo che mi ferisce, di essere stata l’unica a pensarla in questo modo. Come dice Liliana Segre: l’indifferenza è già violenza.
Federica Levi

 

Comunità ebraica Milano, sconforto per ciò che accade in Statale

Intanto, il giorno precedente, il presidente della Comunità ebraica di Milano, Walker Meghnagi, aveva scritto una lettera al rettore dell’Università Statale, Elio Franzini, in merito ad un’altra circostanza che si era verificata sempre all’Università Statale di Milano.

“Esprimo lo sconforto mio personale e della comunità ebraica di Milano a fronte dell’ennesimo episodio di cui l’Università è palcoscenico: un’assemblea ‘colonialismo e apartheid’ nell’aula 515 con la partecipazione ufficiale di due docenti della Statale per spacciare la bugia che lo Stato di Israele sia uno stato coloniale e razzista in cui vige l’apartheid”. Intanto “manifestanti filo palestinesi sono accampati nel cortile dell’università contro ogni regolamento e creando un clima di tensione”. Meghnagi cita poi il confronto avuto alcuni mesi fa con il rettore sul convegno svoltosi a Scienze politiche sul conflitto tra Israele e Hamas il 5 marzo, “che ha visto la partecipazione di noti esponenti antisraeliani. In quell’occasione lei mi ha garantito che la Statale fosse aperta a ospitare tutte le voci e che avrebbe organizzato un convegno per consentire al punto di vista israeliano di essere ascoltato dagli studenti”. Ma “tale convegno previsto per il 7 maggio non si è potuto tenere se non online”.

Non le chiediamo di difendere Israele, ma più semplicemente il diritto degli studenti a sentire opinioni differenti – conclude -. Abbiamo ben presente le difficoltà a cui potrà andare incontro, ma crediamo anche che chiudere il suo rettorato con un’iniziativa che vada a tutela della libertà di espressione applicata ‘perfino’ al mondo ebraico possa essere non solo un atto moralmente alto, ma anche un segnale ai tanti che hanno festeggiato l’annullamento del convegno e che sempre più si sentono legittimati a usare le maniere forti per imporre il loro pensiero”.