di Angelo Garioni e Valentina Rigoli
La prudenza degli storici ha sempre preferito considerarla una ragionevole ipotesi, nell’attesa che i documenti e le carte d’archivio portassero conferma; e invece le risposte non sono giunte da un polveroso studiolo, ma, come spesso accade per le scoperte più affascinanti, in modo inconsueto e imprevisto. Un sabato pomeriggio di un afoso luglio, gli architetti Daniele Levi Formiggini e Angelo Garioni hanno effettuato un sopralluogo presso il Complesso degli ex Monasteri, le ormai dismesse Caserma Paolini (ex Monastero di San Benedetto), Caserma Sagramoso (ex Monastero del Corpus Domini) e Caserma San Martino (ex Monastero di Santa Chiara) in Cremona. L’obiettivo era individuare e tradurre dall’ebraico e dall’yiddish alcune scritte rinvenute sulle pareti di quello che tra il 1945 e il 1948 era stato trasformato nel Displeaced People Camp-Ita 82.
Cremona in quegli anni ospitava uno dei maggiori campi per rifugiati ebrei del nord Italia, organizzato dalle Nazioni Unite: si trattava principalmente di ebrei dell’est Europa che attendevano di imbarcarsi per gli Stati Uniti, il Canada o diretti verso il nascente Stato di Israele. Al 26 dicembre 1947 il campo ospitava 1198 d.p. fra cui molti bambini e adolescenti. Alcune famiglie del campo si allargarono durante la permanenza e proprio a Cremona nacquero alcuni bambini. I locali delle ex caserme erano così stati riadattati per adempiere svariate funzioni (asilo, scuole elementari, cinema, palestra, laboratori, mensa e depositi). A testimonianza delle stesse sono proprio le scritte affisse sui muri che si possono ancora leggere, realizzate con lo scopo di aiutare gli ospiti ad orientarsi all’interno dell’enorme complesso e a chiarire il nuovo utilizzo degli ambienti, spesso trasformati velocemente dall’uso militare. Nelle ex stanze dei cenobi vi erano gli alloggi dei rifugiati con spazi per beni personali di ciascuno. I bagni erano in comune. Le condizioni di vita erano difficili, soprattutto in inverno, a causa del freddo intenso, ma complessivamente accettabili. Cibo e vestiario non mancavano, grazie al supporto del Joint di N.Y. e dell’Unrra. I rifugiati si distinsero per una generosità che si traduceva in atti concreti: i bambini dei quartieri poverissimi di San Bassano e Sant’Ilario, limitrofi al campo, ricevano razioni di pane. Un piccolo gesto di enorme importanza. Il ricordo è ancora vivo in molte persone del luogo, nonostante siano passati vari decenni.
Nel campo, le lingue ufficiali erano l’inglese, il polacco, l’yiddish e l’italiano, specchio del cosmopolitismo degli ospiti e delle loro culture d’origine. Ebrei polacchi, lituani, ucraini, si ritrovarono spesso nelle strade e nelle osterie di Cremona, per festeggiare matrimoni o Bar Mitzvah, ma anche per protestare contro la politica inglese sulla Palestina o esultare per la nascita dello Stato di Israele. Sono cortei pacifici che vogliono coinvolgere la cittadinanza, per sensibilizzarla sulle vicende del mondo israelita. Gli accessi sono liberi e i profughi possono uscire e passeggiare nelle vie cittadine senza restrizioni di sorta.
Camminando tra sterpaglie, tetti crollati, solai collassati e guano, Levi Formiggini e Garioni si sono imbattuti in varie scritte poste al piano terra del Corpus Domini, sotto le volte a crociera del cortile maggiore: “casa dei libri” (la scuola), “barbiere”, e altre tracce di lettere oramai quasi scomparse sopravvivono all’ombra delle colonne insieme ai capitelli cubici scantonati risalenti ad un medioevo lontano. Un paesaggio urbano surreale, oscuro, per un certo verso inquietante quello degli ex campi profughi. Immerse nel severo silenzio dell’estate cremonese, queste antiche stanze testimoniano una storia per troppi anni dimenticata dalla cittadinanza di Cremona. Lasciando dietro di sé le scritte appena tradotte, la visita è proseguita al primo piano.
Salendo i gradini in cotto consunti dall’uso, nell’antica scala che collega il piano terra al nobile, si sono imbattuti in una serie di camerini abbandonati. A sinistra della scala, dopo uno stanzino, sono state individuate due ampie camere. La prima, con due finestre affacciate a est, sulla via Chiara Novella, ha destato subito l’interesse per alcune tracce di pittogrammi. È stato proprio osservando le pareti con estrema attenzione che l’architetto Daniele Levi Formiggini ha notato un tratto blu-azzurro emergere sotto l’intonaco bianco scialbato. È bastato toccare il fragile strato per far emergere dal buio della storia un tesoro. Si è svelata una traccia di azzurro, scuro, simile al blu, steso con un pennello. Via via è apparso un tratto sicuro, tracciato da un ignoto devoto. Un azzurro intenso che mnemonicamente rimandava subito al tallèd, ovvero al manto-scialle di preghiera; ma anche alla bandiera dello Stato di Israele ideata per il Movimento Sionista nel 1891 e ufficialmente adottata dallo Stato d’Israele il 28 ottobre 1948. Un colore intenso nonostante anni d’incuria. Un leggero picchiettare ha svelato l’arcano: ed ecco comparire dal muro scrostato una piccola Menorah stilizzata, affiancata a poca distanza da una Menorah di dimensioni maggiori rifinita finemente nei particolari. Passata l’emozione, e fermata l’opera di rimozione dei lacerti d’intonaco per preservare i sacri resti, subito si è posta la domanda: quale uso poteva avere l’ambiente appena individuato? Dopo una breve analisi si è arrivati all’ipotesi che vi fosse in quel luogo la Sinagoga, allestita dai rifugiati. Questi simboli fanno inequivocabilmente pensare ad un locale adibito a Tempio: lo confermano l’orientamento a est, verso Gerusalemme, e il fatto che sopra non vi siano altre costruzioni, se non il cielo. La posizione della Menorah, posta difronte a due finestre, forse di fronte all’Aron, rafforza questa ipotesi.
Si sapeva con certezza della presenza almeno di una Sinagoga all’interno del DP Camp Cremona, ma non era ancora stato possibile chiarirne l’ubicazione. Scrive infatti Sydney J. Zoltak, ospite da ragazzo nella struttura, che “C’erano anche diversi luoghi di culto, tenuti da vari gruppi religiosi o organizzazioni. Esisteva una forte rivalità tra le diverse organizzazioni politiche e i giovani erano costantemente oggetto di tentativi di reclutamento. Nelle occasioni particolarmente speciali, tuttavia, tutte le organizzazioni sioniste parteciparono insieme alle celebrazioni per ogni importante evento nazionale.”[1]
Questa felice intuizione ci permette finalmente di aggiungere un tassello importante agli studi dell’affascinante vicenda degli ebrei “cremonesi” in viaggio verso Israele. Ma non solo. Cremona infatti vedeva la presenza di una nutrita comunità ebraica fin dal Medioevo. Comunità fusa in parte con il corpo cittadino tanto da scandalizzare il cardinale di Milano Carlo Borromeo, in visita apostolica nella seconda metà del XVI secolo. Spesso gli storici hanno avanzato, nel corso degli studi sulla comunità ebraica cinquecentesca, ipotesi circa l’ubicazione del ghetto e della sinagoga (molti parlano di via Torriani, altri ricordano la contrada Giudecca, attuale via Verdi), senza aver mai potuto stabilire nulla di sicuro, in mancanza di documentazione certa. La scoperta di via Chiara Novella si dimostra dunque l’unica testimonianza indubbia della presenza di una sinagoga in città, utilizzata seppur per soli tre anni. In attesa di nuovi sviluppi ci si augura che il Tempio ritrovato di Cremona possa essere tutelato per la memoria futura di questa storia d’accoglienza e convivenza.
[1] Sidney J, Zoltak, My Silent Pledge: A journey of Struggle, Survival and Rembrance, Toronto, Miroland, 2013.