di Fiona Diwan
È la terza visita di un Pontefice al Tempio Maggiore di Roma, un evento che giunge indubbiamente a ridare oggi nuova linfa e slancio al dialogo ebraico-cristiano. Un’amicizia consolidata, in cui gli elementi di accordo e consenso prevalgono. Certamente Papa Francesco, ascoltando il memorabile discorso della Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ruth Dureghello – e avendolo già letto, condiviso e approvato in sede preventiva -, voleva dirci che ne accettava implicitamente i toni e i contenuti (ed è probabile che sia questa la grande nota positiva di questa visita), pur astenendosi dal dirlo apertamente.
«Il Concilio, con la Dichiarazione Nostra aetate, ha tracciato la via: ‘sì’ alla riscoperta delle radici ebraiche del cristianesimo; ‘no’ ad ogni forma di antisemitismo, e condanna di ogni ingiuria, discriminazione e persecuzione che ne derivano», ha detto il Papa. Un incontro importante e riuscito, quindi, che riafferma l’importanza e la continuazione del dialogo, l’alleanza irrinunciabile di Dio col popolo ebraico, come hanno sottolineato il Rabbino Capo Rav Riccardo Di Segni e il Presidente Ucei, Renzo Gattegna. Certamente, Papa Francesco ha ribadito, con questa visita, la sua peculiare capacità di comunicare ed entrare in sintonia con “l’altro”.
Tuttavia, come spesso accade con l’ufficialità dei discorsi e degli incontri, il non detto a volte è più eloquente delle parole. E a volte pesa come una pietra. Sebbene incalzato dalle parole di Ruth Dureghello, che cosa NON ha detto Papa Francesco durante la storica visita? E soprattutto, che cosa si porta a casa il mondo ebraico, dopo questo incontro? Innanzitutto, una manciata di omissioni. C’è il mancato riferimento a Israele e, ancora una volta, quella medievale parola, Terrasanta. Nemmeno un accenno all’attualità europea, al terrorismo islamista; nessun accenno alla bruciante realtà dell’Israele contemporaneo, all’intifada dei coltelli che uccide civili indifesi, gente assassinata per strada o in casa propria, come se fosse scontato; nessun accenno all’antisemitismo che rialza la testa, sdoganato oggi persino da un’Europa più preoccupata di tenersi buoni i suoi nuovi cittadini di origini musulmane che non a stoppare l’emorragia dei suoi cittadini ebrei, come sta accadendo in Francia, (solo nel 2015 hanno già lasciato il Paese 8000 ebrei francesi, con destinazione Israele).
Papa Bergoglio ha invece scelto di parlare di Shoah e della sola realtà religiosa del popolo d’Israele (bypassando quella che oggi si autodetermina nello stato d’Israele). Ma non ci sono state solo le omissioni. C’è chi non ha potuto evitare di notare, nel discorso di Papa Francesco, il ricorso all’abusata e ispida espressione “Fratelli maggiori”, considerata un po’ paternalistica e oggetto di polemica già al tempo della visita di Papa Wojtila (1986), dizione che era stata prontamente corretta con “Fratelli prediletti” (anche perché l’allusione a Caino e Abele, Esaù e Giacobbe, poteva suscitare un certo imbarazzo). E ancora, – sempre a voler leggere tra le righe -, a molti non è sfuggito un sorprendente e inusuale dettaglio finale: il Papa che recita la Birkat Cohanim, ovvero la solenne benedizione sacerdotale, pronunciata a chiusura del suo discorso: tradotta per l’occasione in italiano, è una benedizione recitata tradizionalmente in ebraico da un Cohen sull’insieme degli ebrei presenti durante la funzione del sabato – in ricordo di come faceva il Sommo Sacerdote nel Tempio di Gerusalemme -.
Il Papa quindi come un Cohen Gadol? Certamente no. Forse, più semplicemente la volontà di una benedizione collettiva, uno dei tanti gesti ecumenici a cui ci ha abituati questo Papa. E, dato il contesto, forse le parole della Birkat Cohanim più che teologicamente sostitutive (“Io sono il nuovo Cohen che vi benedice”…), sono suonate come una conferma della vicinanza del Papa al binomio Israele-popolo religioso, dette apposta per sottolineare una netta presa di distanza dal binomio Israele-Stato. Birkat Cohanim pronunciata espressamente per non entrare nel merito dello stato e della collettività israeliana. Una relazione questa, con lo stato d’Israele, che non a caso, oggi, risulta essere la nota più dolente e critica tra questo Papa e l’ebraismo. All’indomani della storica visita, abbiamo chiesto un commento a caldo ai vari Rabbanim del mondo ebraico milanese. Eccoli.
RAV ALFONSO ARBIB
«Un incontro indubbiamente positivo, che riafferma l’importanza e la continuazione del dialogo ebraico cristiano. Papa Francesco ha riaffermato l’alleanza irrevocabile di Dio con il popolo ebraico e ha riconfermato la sua capacità di empatia, un atteggiamento di vicinanza con la gente che è la cifra del suo Pontificato: l’abbiamo visto passare tra due ali di folla salutando tutti, stringendo centinaia di mani, entrando dalla porta principale del Tempio che ha attraversato in tutta la sua lunghezza. Ciononostante, non nascondo la mia sorpresa di fronte a qualche stupefacente omissione. Ci sono alcuni “ma” che pesano. A partire dal mancato riferimento a Israele e, al suo posto, la parola Terrasanta. E che dire della mancanza di riferimenti all’attualità più bruciante? Non si è parlato di terrorismo islamico, nessun accenno all’intifada dei coltelli che attanaglia Israele. Il Papa ha voluto parlare solo di Shoah. Ma soprattutto, ritengo preoccupante che non si sia accennato al dilagante antisemitismo e al suo stretto legame con l’antisionismo: il che significa, concretamente, in corpore vili, uccidere ebrei qui e ora, israeliani che sono civili inermi non belligeranti e senza armi in pugno, come se fosse una cosa del tutto normale. I continui accoltellamenti che si stanno verificando in Israele da mesi, su diversi mass media spesso vengono tralasciati, considerati come un terrorismo di seconda categoria. E mi preoccupa che nessuno senta il bisogno di parlarne».
RAV GIUSEPPE LARAS
«Devo essere sincero? Da un punto di vista ebraico, di questa visita di Papa Francesco in Sinagoga a Roma non resterà nulla. Un evento tutto sommato non necessario e di scarso rilievo. Ho davvero poco di positivo da dire. L’unica a guadagnarci qualcosa è stata la Chiesa, non certo noi ebrei. Come? Strumentalizzando l’evento in funzione d’immagine e di ecumenismo, ostentando il consenso degli ebrei, insomma una spolverata buonista, un “volemose bene” collettivo, un’operazione di immagine, appunto. A parte il discorso della Presidente Ruth Dureghello, gli argomenti erano triti e generici. Non è stato menzionato lo stato d’Israele, si è insistito sulla formula abusata di “fratelli maggiori”, una formula che suona un po’ paternalistica che fa pensare a Esaù e a Giacobbe, che fa apparire l’ebraismo e gli ebrei come qualcosa di superato. Discorsi irrilevanti e scontati. Alla base emerge una irrisolta questione di fondo: come è ancora possibile che la Chiesa si ostini a considerare Israele – che è una realtà complessa, ricca e variegata -, soltanto sotto l’aspetto religioso? Come è possibile far finta di guardare alla parte solo religiosa evitando di cogliere la verità e l’evidenza dello Stato d’Israele? Mi dispiace, ma dal punto di vista del dialogo, di sostanziale questo incontro non ha aggiunto davvero nulla».
RAV ROBERTO DELLA ROCCA
«Quello avvenuto il 17 gennaio al Tempio Maggiore di Roma è senz’altro un incontro che va a rafforzare gli ormai consolidati sentimenti dell’amicizia ebraico cristiana. L’ebraismo è la storia di una realtà religiosa in cui la Torà, il popolo ebraico e la terra d’Israele formano un intreccio indissolubile, sempre più forte e che continua. Se per secoli la Chiesa cattolica, per definirsi il “verus Israel”, ha cercato di tagliare i legami tra il popolo ebraico e la Torà, certamente oggi la Chiesa ha fatto enormi passi avanti nel riconoscere il binomio indissolubile tra Torà e popolo ebraico. Gli manca, tuttavia, il terzo pezzo: la terra d’Israele. Il dialogo a venire, da oggi in avanti, per progredire e segnare un reale balzo evolutivo, dovrà includere in modo inequivocabile la presa d’atto di questa realtà, una realtà che pulsa e si esprime in modo effervescente e vitale nello stato d’Israele. Questo rapporto tra Torà e popolo vive oggi e si sostanzia proprio lì, nello stato ebraico, Medinat Israel. Il superamento di vecchi rifiuti cede il passo a nuovi modi di rifiutare, glissando sulla realtà di uno Stato che è parte vitale e imprescindibile del dialogo. Nella Bibbia, nella Torà, non è mai pronunciato o nominato il nome di Terrasanta: quel luogo per noi si chiama Terra di Israele».
RAV ELIA RICHETTI
«Ho vissuto con la gente l’emozione dell’attesa, si percepiva una forte aspettativa per questa visita. Già in strada, prima dell’arrivo di Papa Francesco si aveva la netta percezione di vivere un momento storico, anche perché questa visita sta avvenendo in un clima e ad un tornante della storia contemporanea molto diversi rispetto a quello in cui si inserivano le visite dei suoi predecessori, Giovanni Paolo II nel 1986 e Benedetto XVI nel 2010. Le guerre, un senso di forte destabilizzazione, il terrorismo islamista nel cuore dell’Europa e in giro per il mondo, hanno portato il pianeta oggi ad un livello di tensione gravissimo. Da alcuni punti di vista devo ammettere che questa forte aspettativa, questa spasmodica attesa della visita di Papa Francesco, è andata in parte delusa. Dopo le parole decise e forti della Presidente della Comunità di Roma Ruth Dureghello, del discorso puntuale del presidente UCEI Renzo Gattegna e l’intervento del rav Di Segni, Rabbino Capo di Roma, le parole di Papa Francesco sono apparse un po’ meno incisive di quanto la sua carismatica personalità facevano presagire. È un Papa che ci ha abituati ad interventi forti e chiari, mentre mi è sembrato che in questa storica occasione abbia scelto una linea più defilata. È mancata una forte condanna del terrorismo palestinese contro i cittadini inermi dello Stato di Israele, e questa stessa parola, Israele, non è stata pronunciata, a favore invece della formula “Terrasanta”, una nota stonata. È mancato questo riferimento a Israele, si è sentito uno squilibrio “politico” anche tenuto conto della sua vicinanza all’altra parte in causa. La sua maggiore preoccupazione è stata la condanna dell’odio per motivi religiosi, ma era solo una parte di quello che la gente si aspettava. Mi è piaciuto molto invece il riferimento al comune impegno di cristiani ed ebrei nella salvaguardia del Creato, il messaggio ecologista cui Papa Francesco ha dedicato anche una Enciclica e che ha radici comuni nella Bibbia. Un altro messaggio importante che ha dato è stato quello di riaffermare l’assenza di qualsiasi motivazione teologica all’odio contro il popolo ebraico. È stato bello, poi, dal punto di vista umano, il modo in cui si è avvicinato alle persone nel Tempio, salutando, stringendo mani, scambiando parole. Molto caldo e affettuoso l’incontro con i sopravvissuti alla Shoah, citata nel suo discorso come un monito che deve vedere tutti vigili perché si intervenga tempestivamente in difesa della dignità umana».