di Simon Levis Sullam*
Che cos’è e come si produce un genocidio? Possiamo e forse dobbiamo chiedercelo mentre si avvicina, come ogni anno, il Giorno della memoria (27 gennaio), domandandoci anche se è sufficiente quello che ricordiamo e come lo ricordiamo e anche che cosa sia questo senso di saturazione che la ricorrenza istituzionale talora già provoca. Proviamo allora ad introdurre qualche interrogativo nuovo sul piano storico. Può essere utile la categoria di genocidio per interpretare la Shoah in Italia, la partecipazione italiana alla deportazione e allo sterminio degli ebrei nel 1943-45, settant’anni dopo l’avvio delle deportazioni? Da alcuni anni la migliore storiografia sull’Olocausto è in crescente rapporto con quella sui genocidi (dagli Armeni alla Cambogia; dal Ruanda alla ex Jugoslavia): ciò ha consentito di comparare e allo stesso tempo di meglio contestualizzare e definire più precisamente la «singolarità storica di Auschwitz». E anche di gettare nuova luce sui diversi contesti e le particolari dinamiche nazionali in cui la “Soluzione finale” si consumò: comparare significa non assimilare ma mettere in luce le specificità.
Circa venticinque anni fa, sulle pagine del «Corriere della Sera», lo storico del fascismo Renzo De Felice dichiarava l’Italia, con formula divenuta notoria, al fuori del «cono d’ombra dell’Olocausto». Questa posizione, pure ancora largamente accreditata anche presso gli storici e certamente nel senso comune, è difficilmente sostenibile oggi, nel discorso storico e persino in quello pubblico — se il Giorno della memoria, istituito con legge dello Stato italiano nell’anno 2000, ha un senso. La prima e più pesante smentita di quella frase di De Felice – che per la precisione escludeva responsabilità non solo italiane, ma persino dello stesso fascismo in quegli eventi (“Il fascismo italiano è al riparo dall’accusa di genocidio”, diceva) – venne già pochi anni con la pubblicazione, nel 1991, del monumentale Libro della Memoria, curato da Liliana Picciotto per la Fondazione CDEC, cioè l’elenco e le notizie sulla sorte individuale dei quasi 8 mila ebrei vittime italiane della Shoah. Quel libro conteneva, inoltre, il computo preciso degli arresti di ebrei compiuti da italiani nel 1943-45. Gli stessi dati furono valorizzati, nel 1995, dal piccolo e influente libro di David Bidussa, dedicato precisamente a decostruire sul piano storico il «mito del bravo italiano», anche a partire dalla mera contabilità numerica (ma è più difficile mettere in discussione i numeri) di una storia italiana che aveva prodotto, nella sua fase più cupa – quella del fascismo estremo e del collaborazionismo di Salò -, non solo persecuzione dei diritti, ma diretta partecipazione italiana allo sterminio. Fin dal 1988, le ricerche di Michele Sarfatti sul razzismo mussoliniano e poi quelle su fascismo ed ebrei fino alla Shoah, assieme a tutta la stagione di studi avviata allora (e che ancora prosegue) sulla via italiana all’antisemitismo, si erano nel frattempo incaricati di riscrivere una vicenda che certamente non nacque in Italia solo nel 1938, su istigazione tedesca, come qualcuno ancora sostiene, né può essere ridotta a quella che anche di recente è stata chiamata (in modo riduttivo) «nazificazione» del fascismo italiano. E basterebbe in proposito rivolgere la propria attenzione, come da tempo gli storici vanno facendo, alla storia del colonialismo italiano – anche prima del fascismo – per capire subito che noi italiani non abbiamo alcun bisogno di maestri o modelli quando vogliamo usare la violenza. Che cosa aggiunge, tuttavia, contestualizzare oggi le deportazioni degli ebrei italiani nel 1943-45, l’arresto e l’imprigionamento di migliaia di giovani, donne, vecchi, bambini, nella storiografia internazionale sui genocidi?
Innanzitutto gli storici concordano oggi che i genocidi non avvengono esclusivamente in contesti coloniali o ex – coloniali, o comunque in territori di conquista; né possiamo immaginarli solo in luoghi lontani, per diversi motivi, da quelli a noi più familiari (Cambogia o Ruanda; o anche il confine armeno-turco o il regime titino in disfacimento e il nascente conflitto inter-etnico della Jugoslavia nel post-89). Esiste infatti un rapporto intrinseco tra intimità e genocidio: il genocidio colpisce, infatti, i vicini della porta accanto – quindi può riguardare, riguarda tutti noi – come ha mostrato tra gli altri Jan T. Gross, nel suo libro I carnefici della porta accanto (2001), dedicato al massacro degli ebrei di Jedwabne da parte dei propri concittadini polacchi nel 1941, prima dell’arrivo dell’occupante nazista (ancora più icastico il titolo originale: Neighbours, vicini).
Ma in Italia, si dirà, non è avvenuto nessun massacro, almeno per mano italiana. E’ generalmente vero per quanto riguarda l’eliminazione fisica di massa per fucilazione – come nella prima fase della shoah in Europa Orientale (raccontata ad esempio da Christopher Browning in Uomini comuni, 1996) – o per lo sterminio industriale nelle camere a gas, nel cuore e comunque per mano della civilissima Europa (giudaico)-cristiana. Tuttavia gli storici dei genocidi – ad esempio, tra gli altri, Donald Bloxham, oppure Jacques Semelin – ci hanno anche spiegato che, specie in un contesto bellico, già l’identificazione, l’arresto, la separazione di un gruppo su base etnica, religiosa, sociale o di qualsiasi altro criterio (non trascuriamo le condizioni fisiche e mentali, uno dei primi criteri della politica eliminazionista che diede avvio alla Shoah in Europa), per non parlare della loro detenzione in campi di prigionia e la consegna nelle mani di “volenterosi carnefici” o anche di “boia da scrivania” (in stile Eichmann), costituiscono di per sé atti genocidari. Questi atti riguardarono chiaramente decine, centinaia, forse migliaia di italiani, che parteciparono all’ideazione, all’organizzazione e alla realizzazione, su base politica, burocratica o di polizia, della “Soluzione finale del problema ebraico” in Italia nel 1943-45, dopo che la RSI aveva dichiarati gli italiani ebrei “stranieri” e “nemici”.
A decine, gli italiani comuni, nella polizia, nelle forze armate, tra i volontari del rinato partito fascista e anche tra cittadini comuni, semplici collaborazionisti e delatori (come ha raccontato Mimmo Franzinelli nell’opera di più autori, La Shoah in Italia, 2011), si alzarono una mattina qualsiasi dell’autunno 1943, o dell’inverno, o dell’estate 1944, si fecero la barba, o si rifecero il trucco (non mancarono le donne carnefici direttamente coinvolte), bevvero il proprio caffè, salutarono la famiglia, e uscirono a dare la caccia agli ebrei – cioè i proprio vicini “della porta accanto”, i propri compagni di banco, i propri colleghi (i propri amici?) – a sequestrarne le proprietà, ad incarcerarli, a trasferirli in un campo di transito, a consegnarli, infine, in mano tedesca. Avviandoli così non verso “ignota destinazione” ma, consapevolmente, a morte certa (cioè che ha iniziato a mostrare, di nuovo, Liliana Picciotto nel suo L’alba ci colse come un tradimento, 2011).
Sebbene sia doveroso ricordare le migliaia di italiani che salvarono i propri concittadini ebrei, le storie individuali degli italiani comuni che parteciparono al genocidio – un processo che per molti versi prese avvio almeno dall’autunno 1938, sebbene i suoi sviluppi non fossero già inscritti nelle “leggi razziali”, e quindi riguardò migliaia di “carnefici” italiani – la storia dell’Italia dentro il cono d’ombra dell’Olocausto deve ancora essere scritta. Per questo ricordiamo il Giorno della Memoria e – lo scrivo da storico innanzitutto ai miei colleghi storici – non è stato ancora sufficiente, settant’anni dopo quegli eventi, o anche solo dodici anni dopo quella legge di memoria, per mostrarci l’urgenza e la necessità di scrivere quella storia. La storia degli italiani “comuni” e il genocidio: la nostra storia.
*Simon Levis Sullam insegna Storia contemporanea all’Università Ca’ Foscari, Venezia
E’ autore, tra l’altro, de L’archivio antiebraico (Laterza 2009)
e tra i curatori della Storia della Shoah (UTET 2006-2010)