di Ilaria Myr
Picchiata nel suo appartamento da un vicino di casa islamico, gettata ancora viva dal balcone, Sarah Halimi morì in modo atroce. Oggi la massima Corte francese assolve il suo assassino, Kobili Traoré, perché giudicato incapace di intendere. È un malato di mente? No, si era semplicemente drogato, fumando marijuana. La comunità ebraica è incredula e frastornata.
E la società civile del Paese esprime una solidarietà tiepida. Intervista a Georges Bensoussan
«Quello che è successo è uno specchio della società francese, e un chiaro riflesso dell’indifferenza dell’opinione pubblica nei confronti dell’antisemitismo. Ma attenzione a considerare l’Affaire Sarah Halimi come un problema che riguarda solo gli ebrei, è invece tutt’altro: è una spia potente di quello che è oggi la Francia, un Paese alla deriva, che ha perso il suo ruolo di potenza internazionale, e che da decenni fa ormai i conti con una crisi sociale legata all’immigrazione di massa di origine arabo-musulmana, parte della quale non è integrata». È un commento molto amaro nella sua lucidità quello che lo storico Georges Bensoussan ci rilascia a poche settimane dalla sentenza che ha visto, nel suo Paese, decretata dalla Corte di Cassazione l’impossibilità a processare Kobili Traoré, che la notte del 4 aprile 2017 entra nella casa della vicina Sarah Halimi, insegnante ebrea in pensione nel quartiere popolare di Belleville, la picchia barbaramente e poi la butta dalla finestra al grido di “Alla hu Akbar, ho ucciso il sheitan (diavolo in arabo)”. La motivazione della sentenza: Traoré ha agito sulla spinta di un “attacco delirante” causato da uno spinello di marijuana che ha eliminato il suo “discernimento” e per questo non può “essere giudicato penalmente e che il suo stato è stato causato dal consumo regolare di droghe”.
Traoré, pluripregiudicato di origini maliane, all’epoca 27 enne, è un abituale consumatore di droghe. Quando, quella notte entra nell’appartamento di Sarah Halimi, è già fortemente agitato e la sua aggressività esplode quando vede la Menorà nella casa della donna. Un episodio, questo, che ha portato alla classificazione di atto antisemita, ma che di fatto non è bastato a fare punire il colpevole.
Un problema giuridico?
All’indomani della sentenza è esplosa la polemica: come è possibile ritenere non processabile un colpevole reo confesso, giudicato perfettamente sano di mente, solo perché ha assunto delle droghe? Significa che, nonostante l’uso illecito di droghe sia punibile per legge in Francia, se si agisce sotto il loro effetto non si è responsabili penalmente? Di fatto, almeno fino a oggi, il Codice penale francese permette una lettura di questo tipo: l’articolo 122-1, che definisce l’irresponsabilità penale, non distingue né definisce l’origine del «grave turbamento mentale che ha fatto perdere all’autore il discernimento dei propri atti» al momento della commissione del reato.
Un paradosso evidente a tutti, che ha spinto lo stesso Emmanuel Macron a comunicare, all’indomani della sentenza, la richiesta di modificare la legge affinché l’assunzione di stupefacenti non rimuova la responsabilità penale. “Decidere di prendere stupefacenti e poi ‘andare fuori’ non dovrebbe ai miei occhi rimuovere la responsabilità penale. A questo proposito, vorrei che il ministro della Giustizia presentasse al più presto una modifica alla legge”, aveva dichiarato il capo dello Stato a Le Figaro.
La magistratura? incomprensibile
A lasciare perplessa l’opinione pubblica, poi, è il potere molto ampio di cui gode la magistratura in Francia, che, come in questo caso, può decidere se un processo può essere celebrato o meno, ma anche, come è accaduto nel giugno del 2017, protestare contro l’appena eletto Emmanuel Macron, che sosteneva che Traoré dovesse essere processato, accusandolo di invadere la sua indipendenza.
«La Corte ha condotto l’inchiesta nell’ottica di scagionare l’accusato – spiega a Bet Magazine lo storico Georges Bensoussan -. Non ha mai incontrato gli avvocati della famiglia Halimi, così come ha rifiutato totalmente la ricostruzione dei fatti.
Se, ad esempio, fosse emerso che Traoré si era indottrinato in una delle tante moschee del quartiere di Belleville, si sarebbe arrivati ad acquisire un elemento importante per l’impianto probatorio. Invece, la Corte ha moltiplicato le perizie psichiatriche, rifiutando quelle che propendevano per un’alterazione del discernimento, per avallare, come poi è stato, una che sostiene invece l’abolizione del discernimento. Perché nel primo caso Traoré sarebbe stato penalmente responsabile, mentre nel caso dell’abolizione decade ogni responsabilità penale. Fare un processo avrebbe permesso di avere tutti gli elementi per capire il quadro complessivo».
Troppi silenzi colpevoli
A un’attenta analisi dei fatti, dalla notte del 4 aprile 2017 fino alla sentenza di “non processabilità” di Traoré, colpiscono l’attenzione i colpevoli silenzi che si sono manifestati da più fronti: primo fra tutti, quello della polizia che, come riporta il quotidiano Libération, non interviene subito, nonostante sia già nel palazzo mentre la donna viene picchiata e che entra nell’appartamento solo un’ora dopo che l’assassino è andato via.
C’è poi il silenzio dei media, che ne hanno parlato solo dopo la metà maggio 2017, attirandosi le accuse dei membri della comunità ebraica di non avere voluto influenzare le elezioni presidenziali francesi a favore dell’estrema destra.
E infine il silenzio della politica, con sinistra e destra entrambe intimorite dalla forza di Marine Le Pen e dalla possibilità che conquistasse la presidenza della Repubblica francese.
In realtà questi silenzi si erano già visti nel passato, nei confronti di altri atti antisemiti, primo fra tutti l’assassinio di Ilan Halimi, giovane ebreo di 23 anni rapito, torturato per 24 giorni e lasciato morire dalla ‘Banda dei barbari’. Allora, come emerso fin da subito molto chiaramente, le istituzioni faticarono a identificare questo atto come antisemita, rifiutando le richieste della famiglia di intervenire subito. «Nel 2006, il ritardo e il silenzio della polizia e della politica nei confronti dell’uccisione di Ilan Halimi erano dovuti a un’incapacità di capire cosa effettivamente stava succedendo nelle banlieue, protagoniste di violente rivolte nel 2005, dove radicalizzazione islamica, violenza e antisemitismo erano già all’ordine del giorno – spiega Bensoussan, che già nel 2002, nel libro Les territoirs perdues de la Republique (ed. Pluriel), raccontava il degrado culturale nelle periferie e dell’educazione nelle scuole -. Oggi la situazione è diversa: si è arrivati finalmente a capire quale bomba a orologeria sono questi quartieri, ma si cerca di non farla esplodere. Questo è evidente in ciò che è successo con l’assassinio di Sarah Halimi, avvenuto in piena campagna presidenziale. Se ne è parlato solo un mese dopo, per la tacita volontà della classe politica di non gettare benzina sul fuoco, per non incendiare le banlieue, nella consapevolezza che, come dimostrato già nel 2005, la polizia non è in grado di controllarle».
Morire perché ebrei nel XXI secolo
La sentenza ha inevitabilmente suscitato forti critiche da parte ebraica. “Ora nel nostro Paese, possiamo torturare e uccidere gli ebrei impunemente” ha subito twittato Francis Kalifat, presidente del Crif, l’organizzazione di rappresentanza franco-ebraica. “Un omicida antisemita non sarà processato in Francia nel 2021. Un segnale terribilmente fatale è stato inviato nella lotta all’antisemitismo nel nostro Paese”, ha scritto il sindacato studentesco ebraico francese UEJF su Twitter.
Eppure, in Francia ormai da più di 20 anni si muore perché ebrei per mano di fanatici musulmani. Già nel 2003 Sebastien Selam, dj ebreo di Parigi, viene assalito mentre va al lavoro da un vicino di casa e amico musulmano, che gli taglia la gola da orecchio a orecchio. “Lo voleva Allah”, risponde poi al processo. Anche in questo caso, il colpevole viene giudicato in preda a un disturbo psichiatrico al momento dei fatti, e l’atto non viene ritenuto antisemita. Tre anni dopo, nel 2006, viene rapito Ilan Halimi. Poi, nel 2012, l’attentato davanti alla scuola di Tolosa Ozar Hatorah, in cui muoiono quattro persone, di cui tre bambini; nel gennaio del 2015, l’attacco all’Hyper Cacher, con quattro vittime, e nel 2017 l’assassinio di Sarah Halimi, un mese prima delle elezioni presidenziali.
Un anno dopo un’altra donna ebrea viene uccisa in casa: si tratta di Mireille Knoll, 85 anni, sopravvissuta alla Shoah, anche lei picchiata da un vicino di casa.
A tutti questi atti vanno aggiunte le intimidazioni quotidiane, gli attacchi fisici, gli atti di vandalismo ai danni di ebrei, perpetrati nella quasi totalità dei casi da immigrati di origine arabo-magrebina. «Guardare in faccia questa situazione e definirla per quello che è obbligherebbe, oggi come ieri, la classe politica francese a riconoscere uno dei problemi più grandi della società francese di oggi – continua Bensoussan -: la presenza di una parte di musulmani che non vuole integrarsi e l’impotenza delle istituzioni nei suoi confronti. Ma ciò non avviene, un po’ per vigliaccheria delle élites politiche e culturali, e un po’ per l’esistenza di un forte islamo-gauchisme, un sostegno indiscusso della sinistra a tutto ciò che riguarda il mondo arabo musulmano, visto come il nuovo proletariato».
Come dimenticare che lo stesso Bensoussan è stato al centro di un caso giudiziario – soprannominato l’Affaire Bensoussan, che si è concluso nel 2019 con la sua assoluzione – per avere affermato, durante un dibattito radiofonico nel 2015, che «nelle famiglie arabe, tutti sanno, ma nessuno ammette, che l’antisemitismo è trasmesso attraverso il latte materno», riferendosi in particolare ai musulmani delle banlieue parigine. La frase di Bensoussan sollevò a suo tempo un polverone che gli costò accuse pesantissime con tanto di querele da parte di alcune associazioni antirazziste, tra cui la Ligue des droits de l’Homme (LDH) e del Collectif contre l’islamophobie en France (CCIF). Seguirono anni di afflizione e di tormento per il direttore editoriale del Mémorial de la Shoah e fra i massimi studiosi di antisemitismo e Medio Oriente che – nonostante avesse ripetutamente cercato di chiarire che si trattava semplicemente di un’espressione figurata riferita a un pregiudizio culturalmente diffuso – fu denunciato dalle grandi associazioni per istigazione all’odio razziale.
Una società indifferente
“In migliaia per chiedere giustizia per Sarah Halimi”: così titolavano i giornali italiani – che dell’assassinio di Sarah Halimi dal 2017 avevano parlato pochissimo – all’indomani della manifestazione che in Francia ha visto scendere in piazza alcune migliaia di persone per protestare contro la decisione della Corte di Cassazione sull’impossibilità a processare Kobili Traoré. Ma sono stati davvero cortei così partecipati dalla popolazione francese, come si è stati spinti a credere? Oppure, anche in questo caso, si è dimostrato quello che scriveva il filosofo Jean-Paul Sartre nel 1931, nel suo Riflessioni sulla questione ebraica: “L’ebreo ha dei nemici appassionati e dei difensori senza passione”?
«Non si è trattato di una grande manifestazione – commenta amaro Bensoussan -. C’erano circa 20.000 persone in tutta Parigi e nell’Ile-de-France, la maggioranza delle quali ebree. Questo perché l’opinione pubblica francese considera che si tratti di un fatto che riguarda solo la comunità ebraica. Certo, ci sono dei simpatizzanti, ma il sentimento dominante nei confronti degli ebrei in Francia è l’indifferenza. Lo metteva bene in luce una ricerca di qualche anno fa sulla partenza degli ebrei dalla Francia a seguito della crescita dell’antisemitismo: il 67% non ne sapeva nulla». Eppure, i numeri parlano chiaro: tra il 2000 e il 2020, 60.000 ebrei dalla Francia (ovvero il 15% della comunità) si sono trasferiti nello Stato di Israele, portando allo svuotamento di alcune comunità e alla chiusura di scuole ebraiche.
Ma cosa accadrà nel futuro? La Francia è forse destinata a diventare un Paese senza ebrei?
«Per gli “ebrei visibili”, che rispettano lo Shabbat, mettono una mezuzah all’ingresso della loro casa, istruiscono i loro figli negli istituti ebraici, a maggior ragione se sono dispersi sul territorio nazionale, la vita diventa sempre più difficile – continua lo storico -. Questo è ciò che spiega l’alya interna, che spinge molte famiglie ebree a lasciare alcuni territori e ad aggregarsi in altri per condurvi una vita sempre più comunitaria. L’immigrazione arabo-musulmana ha quindi ampiamente favorito il ritiro degli ebrei nella comunità. Ha anche contribuito a “denazionalizzarli”: la prova è che alcuni hanno avuto la strana idea di fare riferimento alla giustizia israeliana riguardo a Sarah Halimi, invece di deferirla alla Corte europea dei diritti dell’uomo».
Per gli altri ebrei, invece, si assisterà a una “invisibilizzazione nello spazio pubblico”. «Eviteremo di farci notare, parleremo a bassa voce di certi argomenti, nello spazio professionale non diremo che siamo ebrei, soprattutto se il nostro nome non lo indica subito, in una parola agiremo come se l’ebraicità ancora una volta fosse diventata oggetto di sospetto. Negli anni la condizione ebraica in Francia diventerà (come in Belgio) una delle più difficili della diaspora, a causa della dilagante islamizzazione del Paese (ricordiamo che la Francia è il Paese in Europa che accoglie più musulmani). In Francia, il Paese dell’emancipazione, il segno ebraico sta diventando un segno di esilio o, peggio ancora, un segno pericoloso per chi vive in situazioni precarie, principalmente le classi lavoratrici e le classi medie. L’ebreo di Sarcelles, un sobborgo operaio a nord di Parigi, ha capito 20 anni fa che la situazione stava andando male. Per gli ebrei dei bei quartieri, ci sono voluti 20 anni per capire che la situazione stava diventando drammatica».
Un nuovo Affaire Dreyfus?
Si tratta di due casi, l’Affaire Dreyfus e l’Affaire Halimi, avvenuti a più di 130 anni di distanza, quando il Paese di cui parliamo, la Francia, è radicalmente diverso. «L’unico punto in comune è che il soggetto ebreo, allora il capitano Dreyfus, degradato e incarcerato, ora Sarah, insegnante in pensione, donna, assassinata, sono entrambi, oltre la loro persona individuale, rivelatori di una crisi francese. Allora, nel 1894, la crisi era politica e finì per mettere in discussione la Repubblica, rivelando l’importanza delle forze anti-repubblicane nel Paese. Oggi la crisi è sociale ed evidenzia il fatto che l’immigrazione di massa di origine arabo-musulmana, parte della quale non è integrata ma nemmeno si separa completamente dalla nazione, va gestita senza infingimenti.
In entrambi i casi, il capitano di allora, l’insegnante di oggi, portano alla luce una crisi che trascende la comunità ebraica. Detto questo, e a parte questo aspetto specifico, i due casi sono radicalmente diversi». Certo: contesto, tempi, modalità e conseguenze sono lontani nei due Affaires. Resta il fatto che quando un ebreo, in Francia, è vittima del sistema – militare, giudiziario, investigativo che sia – è solo. La società civile non ha smesso di guardarlo con sospetto o quantomeno con indifferenza, anche se ha l’età e la dolcezza di una tranquilla signora come Sarah Halimi.
L’assoluzione dell’assassino di Sarah Halimi è una aberrazione giuridica
Come è possibile che Kobili Traorè sia stato considerato “non punibile” per l’assassinio di Sarah Halimi, solo perché sotto l’effetto di marijuana? Anche in Italia sarebbe stato possibile un giudizio tanto paradossale? Lo abbiamo chiesto a Francesco Mucciarelli, professore associato di Diritto penale all’Università Bocconi di Milano. “Il carattere personalistico della responsabilità penale impone di muovere il rimprovero all’autore di un fatto illecito soltanto in presenza del prescritto elemento soggettivo (dolo o colpa), che sconta tuttavia – quale vero e proprio pre-requisito – la capacità di intendere e di volere (c.d. imputabilità) in capo al reo. In assenza delle predette facoltà mentali non sarà possibile ritenere il soggetto imputabile e quindi sottoponibile a pena (vizio totale di mente), mentre qualora la capacità di intendere e di volere – da accertare al momento del fatto e non necessariamente in via assoluta – sia limitata (ma non del tutto esclusa, c.d. vizio parziale di mente) sarà inflitta una sanzione più mite. Il codice penale italiano contiene peraltro un’apposita disciplina per le ipotesi di alterazione psico-fisica derivante dall’assunzione di alcol o sostanze stupefacenti. Il criterio generale segue la medesima logica delle alterazioni derivanti da patologie psichiatriche (vizio parziale o totale di mente), ma se ne differenzia in quanto prende in esame anche fattispecie ulteriori, connesse all’assunzione più o meno continuativa di sostanze psicotrope. In via di principio gli stati di alterazione psico-fisica occasionali (a meno che derivino da caso fortuito o forza maggiore) non incidono sull’imputabilità e persino se colposi (cioè provocati involontariamente da chi assuma una quantità eccessiva di alcol o stupefacenti) lasciano immutata la responsabilità penale di colui che commette un reato sotto l’influenza di tali sostanze, la cui assunzione ‘preordinata’ (ad esempio allo scopo di abbassare i freni inibitori) costituisce al contrario circostanza aggravante. In Italia sarebbe stato meno probabile escludere la capacità di intendere e di volere dell’autore dell’omicidio di Sarah Halimi. L’impostazione rigorosa delle Corti italiane affonda a ben vedere le radici in ragioni politico-criminali (esigenza di reprimere condotte antisociali di coloro che sono dediti al consumo di sostanze psicotrope)”.