di Claudio Vercelli
Che cos’è l’antisemitismo? Non di meno, chi è antisemita? Quando il bersaglio sono gli ebrei, entra in gioco anche il giudizio sullo Stato d’Israele? In caso affermativo, quando si può definire l’antisionismo non come una sgradevole manifestazioni di idee radicali ma in quanto concreta avversione nei riguardi degli ebrei medesimi?
Le questioni di fondo, dinanzi a questi quesiti, sono tante e per nulla di facile soluzione. Poiché si incontrano con una serie di temi che ben poco hanno a che fare con le sole definizioni astratte, rimandando semmai ad una pluralità di problemi concreti che accompagnano l’evoluzione del legame tra libertà e giustizia nelle nostre società. Il catalogo è ampio, per capirci. Nel 2016 l’International Holocaust Remembrance Alliance, organizzazione di rango intergovernativo, aveva dato origine ad una definizione operativa (working definition) di antisemitismo, adottata poi dal Parlamento europeo e, come tale, indirizzata a tutti gli Stati membri dell’Unione europea.
Uno dei fuochi di tale documento era costituito dall’accostamento critico tra antisemitismo e antisionismo. In realtà, tra i due fenomeni non veniva stabilita nessuna diretta sovrapposizione. Semmai si identificavano alcune complesse similitudini. Il testo dell’IHRA, infatti, denuncia le forme di demonizzazione di Israele, ovvero «la sua trasformazione in uno Stato paria perennemente messo in discussione e giudicato secondo standard che non si applicherebbero a nessun altro Stato» (David Meghnagi). La working definition non interviene nel merito del conflitto politico e territoriale che contrappone israeliani a palestinesi. Semmai raccoglie gli echi antisemitici che possono annidarsi in quell’antisionismo secondo il quale Israele, per il fatto stesso di esistere come prodotto storico, sarebbe di per sé non solo una forzatura ma soprattutto un obbrobrio morale ed un esercizio di abusivismo politico da emendare con la sua cancellazione fisica.
Ciò che l’IHRA licenziò a suo tempo non era comunque una formula “scientifica”, valida in qualsiasi contesto, bensì un’ipotesi di lavoro intesa come strumento di indirizzo culturale e politico fruibile in più contesti nazionali. Non un testo di legge, quindi, ma una cornice interpretativa. Come tale, soprattutto in grado di squarciare l’ipocrisia che separa ancora oggi la condanna del pregiudizio contro gli ebrei da quello contro il sionismo (laddove quest’ultimo sia equiparato in tutto e per tutto, come dottrina politica, al «colonialismo», all’«imperialismo», al «suprematismo», al medesimo «razzismo»).
Suddiviso in due parti, la prima, in quanto preambolo molto generico – in sé da molti giudicato ancora insufficiente – dedicato alla «percezione» negativa degli ebrei e la seconda, invece, ad undici indicatori di merito del pregiudizio (che richiamano, indirettamente, anche certe devianze di un antirazzismo identitario che ricorre a formulazioni universaliste per esaltare invece le appartenenze di gruppo e non di cittadinanza), ha raccolto diversi plausi ma anche alcuni dissensi. In ciò conta senz’altro il fatto che la dichiarazione rimanga il frutto di un lungo lavoro di mediazione diplomatica.
La Jerusalem Declaration on Antisemitism
Nel mese di marzo di quest’anno, a ricalco – sia pure critico – di tale lavoro si è affiancata, dopo circa un anno di discussioni, la Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo (The Jerusalem Declaration on Antisemitism-JDA), firmata da più di duecento studiosi, tra cui alcuni italiani, in calce al documento prodotto dal Van Leer Institute di Gerusalemme. Rispetto al documento dell’IHRA è netta la presa di posizione critica contro agli accostamenti ritenuti indebiti.
Un esempio tra i diversi: «non è antisemita sottolineare la discriminazione razziale sistematica. In generale, le stesse norme di dibattito che si applicano ad altri Stati e ad altri conflitti sull’autodeterminazione nazionale si applicano nel caso di Israele e Palestina. Quindi, anche se controverso, non è antisemita, di per sé, confrontare Israele con altri casi storici, incluso il colonialismo dei coloni o l’apartheid».
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Se la JDA (Qui la Dichiarazione) contiene una definizione di antisemitismo che riprende alcuni aspetti del documento dell’IHRA, di fatto dettagliandola in più punti, vi aggiunge l’affermazione per cui «c’è un bisogno ampiamente sentito di chiarezza sui limiti del discorso e dell’azione politica legittima riguardo al sionismo, ad Israele e alla Palestina». È infatti nelle quindici linee guida del documento che si manifesta la sua intelaiatura culturale di fondo.
I sottoscrittori argomentano sulla natura dell’antisemitismo, definito come «l’idea che gli ebrei siano legati alle forze del male. Questo [pensiero] è al centro di molte idealizzazioni antiebraiche, come la fantasia di una cospirazione ebraica in cui “gli ebrei” possiedono un potere nascosto che usano per promuovere la propria agenda collettiva a spese di altre persone». Non di meno, inseriscono il fenomeno antisemitico dentro le più ampie dinamiche razziste delle società contemporanee, offrendo di queste ultime alcuni lineamenti interpretativi di fondo. Dell’antisemitismo forniscono quindi una pluralità di esempi, richiamandosi a manifestazioni «dirette o indirette, esplicite o codificate», sia attraverso la violenza fisica, l’invettiva e gli insulti che per il tramite di simbolismi di senso comune.
Il fuoco della Dichiarazione è tuttavia l’attenzione posta alle ricadute dell’antisemitismo all’interno del groviglio mediorientale ed, in immediato riflesso, nel dibattito pubblico. Si denuncia senz’altro la pericolosa traslazione degli stereotipi antigiudaici in più aspetti del confronto in corso tra israeliani e palestinesi ma l’attenzione è accentuata verso la necessità di scindere le dinamiche ritenute propriamente razziste da quanto è da ascriversi alla libera discussione.
Ad esempio, non è reputato antisemitismo il «criticare o [l’] opporsi al sionismo come forma di nazionalismo, o sostenere una varietà di accordi costituzionali per ebrei e palestinesi nell’area tra il fiume Giordano e il Mediterraneo». Così com’è reputata legittima la «critica basata sull’evidenza di Israele come Stato. Ciò include le sue istituzioni e i principi fondanti. Include anche le sue politiche e le pratiche, nazionali e internazionali, come la condotta di Israele in Cisgiordania e Gaza, il ruolo che Israele gioca nella regione o qualsiasi altro modo in cui, come Stato, influenza gli eventi nel mondo». Il senso di questo passaggio va peraltro chiarito: si possono opinare le azioni politiche d’Israele, non solo attraverso le scelte dei suoi governi ma per l’insieme delle funzioni che vengono assunte dalle sue istituzioni rispetto alle dinamiche di quadro, ossia a livello mediorientale. Fare ciò, dicono i firmatari dell’JDA, in linea di principio non comporta alcuna intenzione antisemitica (la stessa cosa vale per «boicottaggio, disinvestimento e sanzioni [che] sono forme comuni e non violente di protesta politica contro gli Stati»).
In altre parole ancora, «il discorso politico non deve essere misurato, proporzionato, moderato o ragionevole per essere protetto […]. Le critiche che alcuni potrebbero considerare eccessive o controverse, o che riflettono un “doppio standard”, non sono, di per sé, antisemite. In generale, la linea tra discorso antisemita e non antisemita è diversa dalla linea tra discorso irragionevole e ragionevole». Per i firmatari del documento si tratta di «rafforzare la lotta contro l’antisemitismo chiarendo cos’è e come si manifesta», al pari del «proteggere uno spazio per un dibattito aperto sull’annosa questione del futuro di Israele-Palestina».
Al di là degli auspici, così come dei distinti contenuti, sono forse due gli elementi più importanti che separano il testo dell’IHRA da quello dell’JDA. Il primo di essi è l’impatto istituzionale; nel primo caso è rilevante, trattandosi del prodotto di un lungo percorso di lavoro intergovernativo contro l’antisemitismo; nel secondo, invece, si è in presenza di una dichiarazione di studiosi che interviene nel dibattito alimentatosi nel corso di questi ultimi due decenni. Allo stesso tempo, ed è l’elemento successivo, l’IHRA genera documenti e pratiche operative che implicano la mediazione tra figure politiche e civili, mentre l’JDA esprime delle posizioni sui punti più critici dell’analisi dell’antisemitismo, tuttavia in base ad un approccio prevalentemente culturale ed intellettuale. Anche per questo, se ne può stare certi, la parte più rilevante della Dichiarazione di Gerusalemme, quella che ancora una volta slega il pregiudizio antiebraico dall’arcipelago antisionista, sarà fonte di molte discussioni se non di rinnovate polemiche, soprattutto in campo ebraico.