di Davide Romano
La liberazione immediata degli ostaggi israeliani, il cessate il fuoco a Gaza, la ripresa dei colloqui con l’Arabia Saudita per l’estensione degli Accordi di Abramo, ai quali potrebbe agganciarsi anche il Qatar: la visione di Donald Trump è articolata e muscolare. Ne parliamo con il giornalista Andrea Morigi
Alla fine sarà ancora lui, The Donald, il prossimo inquilino della Casa Bianca. Di nuovo. Nel precedente mandato, prima dei quattro anni dell’amministrazione Biden, Trump aveva portato al tavolo dei negoziati gli Stati Arabi Sunniti e Israele, siglando gli Accordi di Abramo, e aveva spostato l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Cosa realizzerà nel nuovo quadriennio? Davvero sarà in grado, come ha promesso, di risolvere i conflitti in corso?
In vista del suo insediamento, il 20 gennaio, Bet Magazine/Mosaico ha sentito il giornalista Andrea Morigi, capo della redazione esteri del quotidiano Libero, per capire cosa aspettarsi. Curatore di diversi report sulla libertà di religione, ha pubblicato due libri sul Medio Oriente: Media e Oriente per Mursia e Multinazionali del terrore per Piemme.
Il 20 gennaio si insedierà Trump alla Casa Bianca. Il suo programma per il Medio Oriente riprenderà da dove si era interrotto? Ripartirà dagli Accordi di Abramo per estenderli?
Dopo quattro anni le condizioni sono cambiate, ma non necessariamente in peggio. L’obiettivo del riconoscimento reciproco fra Israele e alcuni Stati arabi apparentemente ha subito una battuta d’arresto dopo il 7 ottobre. Un obiettivo delle stragi e dei rapimenti compiuti da Hamas era proprio quello di impedire l’avvio di relazioni diplomatiche fra Arabia Saudita e Stato ebraico. In questo la Repubblica Islamica dell’Iran ha giocato tutte le carte di cui disponeva. Ha utilizzato la sua influenza in Libano e a Gaza per stringere in una tenaglia il “nemico sionista”. Ha fallito. Anche perché la Giordania e l’Arabia Saudita hanno fornito copertura radar a Israele quando l’Iran ha lanciato droni e missili su Tel Aviv. Intanto sono anche cambiati alcuni attori sulla scena e/o si è ridimensionato il loro peso politico e strategico. La Siria, per anni principale canale di rifornimento di armi per Hezbollah, non è più una pedina di Teheran e nemmeno di Mosca. Se sia un segnale positivo per gli equilibri della regione, lo si vedrà. Si può registrare che Trump ha commentato con soddisfazione la caduta del regime canaglia di Assad. Forse nutre qualche speranza di coinvolgere anche gli jihadisti che hanno conquistato Damasco nel processo di normalizzazione del Medio Oriente.
Quali sono le nomine chiave per capire la politica che Donald Trump farà, da neopresidente, nei confronti di Israele?
Innanzitutto il segretario di Stato in pectore Marco Rubio, grande amico di Israele e non certo tenero verso gli ayatollah e i loro alleati. Ma non bisogna trascurare neanche l’inviato speciale per il Medio Oriente Steve Witkoff, che si è già recato in Qatar e Israele a dicembre, dove ha incontrato i rispettivi governanti – lo sceicco Mohammed bin Abdul-rahman Al Thani e il premier Benjamin Netanyahu – per far partire l’iniziativa diplomatica del presidente eletto degli Stati Uniti mirata a raggiungere un cessate il fuoco a Gaza e un accordo sul rilascio degli ostaggi prima del suo insediamento il 20 gennaio. Un nuovo inizio dopo quasi 14 mesi di diplomazia infruttuosa da parte dell’amministrazione Biden, se è vero che Doha ha ripreso il suo ruolo di mediatore chiave dopo essersi autosospesa. Si è parlato di volontà “senza precedenti” delle parti nei loro sforzi per raggiungere un’intesa. Inoltre vanno considerate in questo quadro l’annuncio della nomina come senior advisor presidenziale per il Medio Oriente e il mondo arabo dell’imprenditore libanese Massad Boulos, e l’anticipazione della nomina come ambasciatore a Parigi di Charles Kushner, padre di Jared Kushner (genero di Trump) che ha realizzato durante il primo mandato di Trump gli Accordi di Abramo.
In cosa si vedrà la differenza tra la politica di Biden e quella di Trump nei confronti di Israele e dell’Iran?
Mi pare che l’orientamento dell’elettorato Repubblicano e dei suoi rappresentanti politici sia diametralmente opposto a quello delle frange Propal e filo Bds (boicottaggio-disinvestimento-sanzioni contro Israele, ndr) che hanno condizionato le scelte della Casa Bianca negli ultimi quattro anni. Anche se il concreto sostegno economico e militare a Israele da parte degli Stati Uniti non è mai venuto meno, le dichiarazioni dei Democratici sono state spesso ambigue, in particolare sull’aspetto degli aiuti umanitari da fornire ai “civili” di Gaza. E l’ambiguità non è proprio una delle caratteristiche di Trump… il quale ha compiuto una sola azione bellica come comandante supremo delle Forze armate Usa: il 3 gennaio 2020, eliminando il generale Qassem Soleimani, comandante delle Guardie della Rivoluzione iraniane.
Qualcuno sostiene che la sola notizia che Trump sarà Presidente ha già cambiato l’atteggiamento di tanti governi, in Medio Oriente e no. Può farci qualche esempio?
Più che altro c’è chi approfitta del periodo transitorio fino al 20 gennaio, data dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca, per sistemare le proprie partite nell’interregno. Ma in effetti ci sono tanti governi in Europa che non vedevano l’ora di alleggerire i bilanci pubblici dalle voci che facevano riferimento al sostegno all’Ucraina e paiono pronti ad accodarsi al nuovo corso americano. Numerosi e importanti assetti politici si trovano già in crisi di consenso: dalla Germania alla Spagna, passando per la Francia. Anche il Cremlino in fondo si rallegrerebbe se potesse terminare la propria aggressione militare all’Ucraina. Non saprei trovare un nesso causale fra l’approssimarsi di Trump alla Casa Bianca e l’abbandono da parte della Russia dell’avamposto siriano, ma non è certo un risultato di Biden, al quale Vladimir Putin non avrebbe mai concesso un vantaggio strategico. Comunque, le truppe nordcoreane sono arrivate alle porte dell’Europa e pare siano lì per restare. Rimangono aperti inoltre molti altri fronti in Africa, e incombono minacce come quella cinese su Taiwan.
Il fatto che il presidente eletto abbia detto chiaramente che vuole la pace entro il giorno del suo insediamento il 20 gennaio, può avere messo fretta a Israele? E avere in qualche modo danneggiato la strategia di Gerusalemme che prevedeva una guerra da finire solo una volta distrutte Hamas e Hezbollah, e non prima?
Innanzitutto la priorità è sempre stata liberare gli ostaggi prigionieri dei terroristi islamici palestinesi. Anche se ce ne fosse soltanto uno o una ancora a Gaza, non si potrebbe considerare risolta la situazione. E comunque il raggiungimento di una tregua al confine israelo-libanese non è di ostacolo all’autodifesa da parte di Gerusalemme che infatti interviene puntualmente con l’aviazione a colpire i terroristi di Hezbollah che sconfinano oltre il fiume Litani. D’altronde, se Israele non si fosse difeso militarmente, oggi avremmo ancora a che fare con terroristi del calibro di Yahya Sinwar e Hassan Nasrallah, per limitarsi ai più noti. E le prospettive di pace sarebbero minori.
Cosa prevede che succederà nel fronte interno USA? Che cosa pensa che potrà fare Trump contro l’antisemitismo che ha invaso le università e tanta parte della cultura americana?
Il problema interno agli Usa ha radici più profonde di quelle politiche. È un effetto della crisi dell’Occidente. Si riflette anche nella diffusione a livello accademico della cultura woke, che considera i “bianchi capitalisti” israeliani colonialisti sfruttatori dei “poveri proletari” palestinesi. E, quando si sbaglia la lettura della storia, poi inevitabilmente si finisce per sbagliare anche nella sfera delle decisioni politiche e di schieramento. Chiaramente gli atti di antisemitismo – che non possono essere tollerati o sottovalutati – nascono in un contesto mediatico, amplificato e forse anche generato dal web, che distorce anche il diritto alla libera espressione. Penso che in questo senso l’impegno dell’amministrazione degli Stati Uniti a favore del rispetto della libertà religiosa nel mondo, attraverso l’Uscirf (Commissione statunitense per la libertà religiosa internazionale, agenzia indipendente e bipartisan che monitora il diritto universale alla libertà di religione all’estero e che formula raccomandazioni politiche al Governo e al Congresso) e il Dipartimento di Stato possa essere ulteriormente ampliato e potenziato, per dimostrare che Israele figura fra i Paesi dove le condizioni delle minoranze confessionali sono migliori. Sarebbe una bella lezione da impartire anche ai tribunali internazionali, oltre che ai Paesi che vi fanno ricorso in modo strumentale.
Foto in alto: Donald Trump (CC Creative commons)