di Francesco Paolo La Bionda
Un Medio Oriente preda della tensione tra due tendenze opposte. Da una parte, la lotta per raggiungere la stabilità dei moderati continuando ad adoperarsi contro il terrorismo -; dall’altra, l’aggressività di falchi e radicali. È l’analisi in sintesi elaborata da un osservatore interno alla regione, che gode di un punto di vista privilegiato: la Torre Matcal, sede del ministero della Difesa di Israele.
Il titolare del dicastero e Vice Primo Ministro Benny Gantz ha illustrato la sua visione strategica per l’area nel corso dell’evento recente “Israele ed il futuro del Medio Oriente”. Il dibattito ha costituito la prima volta in cui il politico si è reso disponibile per un’intervista fuori da Israele, rispondendo alle domande di Andrea Colandrea, responsabile esteri del Corriere del Ticino, di Christian Dorer, il direttore del gruppo Blick e di Maurizio Molinari, direttore de La Repubblica.
Un’occasione unica per comprendere l’indirizzo geopolitico dell’uomo che, a un anno da oggi, sarà alla guida del paese. Gantz si alternerà infatti alle redini del comando col rivale –alleato Netanyahu, attualmente in carica, così come stabilito dagli accordi che hanno portato al governo di coalizione tra la sua formazione Blu e Bianco e il Likud.
Il ministro della Difesa ha inquadrato i recenti sviluppi nelle relazioni tra Israele e i paesi vicini nel contesto storico recente di primavera e inverno arabi. “Stiamo mettendo fine a un decennio di instabilità, che riguarda l’intera area” ha spiegato. Le rivoluzioni e le rivolte che dieci anni fa hanno travolto il mondo arabo hanno ottenuto pochi dei risultati che si erano prefisse in termini di apertura democratica e maggiore equità sociale. Hanno invece determinato una catena di eventi conflittuali con gravi risvolti per Israele. L’Iran ha ampliato e rafforzato la sua presenza in Iraq e soprattutto in Siria, dove può lavorare congiuntamente sia col regime di Assad sia con gli hezbollah libanesi, accorsi a dare man forte all’alleato siriano. In Egitto, il golpe del generale Al-Sisi del 2013 ha messo fine al governo degli islamisti di Morsi, ma al prezzo di un’insurrezione dello Stato Islamico nel Sinai che continua ancora oggi.
L’Iran e i suoi affiliati restano la minaccia percepita come principale. Gantz è categorico sulla necessità di impedire al regime di Teheran di dotarsi di armi nucleari, segnalando un precedente pericoloso: “guardate cosa è successo con la Corea del Nord: può comportarsi come fa perché è una potenza nucleare. Non dobbiamo permettere accada nella nostra area geografica”. Resta però possibilista riguardo al raggiungimento del risultato tramite i negoziati. Si dice convinto che gli Stati Uniti torneranno al tavolo del confronto nell’ambito del Joint Comprehensive Plan of Action, l’accordo sul nucleare iraniano del 2015. Il presidente eletto Joe Biden ha del resto manifestato l’intenzione di far rientrare gli Stati Uniti nell’iniziativa, da cui Trump li aveva ritirati nel 2018. Il presidente uscente aveva infatti preferito la strada dell’inasprimento delle sanzioni, nonostante la contrarietà dei partner europei. Anche sulla necessità del coinvolgimento di questi ultimi il ministro israeliano si è trovato in linea col prossimo inquilino della Casa Bianca.
Allo stesso tempo, Gantz ha rivendicato la necessità degli attacchi aerei israeliani contro le forze iraniane, libanesi e siriane presenti nel paese vicino: “hanno cercato di infastidirci con attacchi lungo il confine e abbiamo dovuto contrattaccare”. Il riferimento in particolare era all’incursione dell’aviazione di Tel Aviv nella Siria orientale avvenuta proprio la mattina del 17 novembre scorso. L’attacco, uno dei pochi confermati ufficialmente dalle forze armate israeliane, avrebbe causato quattordici morti tra le fila iraniane, in particolare tra le milizie reclutate da Teheran tra i musulmani sciiti afgani e iracheni. Un attacco presentato da Israele come risposta a un fallito attentato sulle alture del Golan, e che ha spinto l’Iran stesso a minacciare di ritorsioni lo stato ebraico in caso di future incursioni. I numeri del resto raccontano una magnitudo dello scontro ben più ampia rispetto a occasionali rappresaglie: la stessa aviazione israeliana, nel 2017, aveva ammesso di aver condotto oltre cento attacchi contro trasporti di armi degli hezbollah e delle forze armate siriane nei sei anni precedenti.
È riconducibile invece alla normale prassi di intelligence, si può almeno supporre, il netto diniego espresso dal ministro riguardo al coinvolgimento di Israele nell’omicidio del numero due di Al Qaeda, Abdullah Ahmed Abdullah. L’attribuzione al Mossad dell’assassinio, avvenuto a Tehran lo scorso agosto, era stata ventilata dal New York Times in un recente articolo.
Nel corso del dibattitto, Gantz ha in ogni caso insistito più volte ed esplicitamente sulla necessità di coniugare l’azione militare col dialogo e di porsi come obiettivo ultimo la pace. “Da una parte si va avanti con una tendenza positiva, dall’altra non bisogna demordere nel combattere il terrorismo. Basta un cedimento su uno solo di questi due lati e non si va avanti. Solo combattere non è sufficiente, fare pace senza essere forti neppure” ha argomentato.
Un modello che il Ministro propone di applicare anche nella metodologia con cui affrontare la minaccia del terrorismo: “combattere l’estremismo non vuol dire soltanto portare avanti attività di controterrorismo, ma si tratta anche di costruire un’ideologia alternativa, decostruire ciò in cui credono quelle persone” ha spiegato “dobbiamo quindi incoraggiare e promuovere le idee moderate se abbiamo l’opportunità, perché queste idee potrebbero portare a soluzioni migliori”.
A questo riguardo ha sottolineato l’importanza degli Accordi di Abramo siglati lo scorso 15 settembre con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, i primi paesi arabi a normalizzare i rapporti con Israele dopo l’Egitto nel 1979, e la Giordania nel 1994: “ci troviamo di fronte un insieme di paesi moderati come le monarchie del Golfo, la Giordania, speriamo presto anche l’Arabia Saudita, che costituiscono un’alternativa ai radicali in Siria, in Iraq, in Libano”.
La prospettiva di Gantz è ottimista sull’ampliamento del fronte della riappacificazione e oltre agli stati sopracitati ha parlato anche di passi avanti del Sudan e della speranza di un coinvolgimento di non meglio specificati paesi del Nord Africa. Per il Sudan, il processo è già in una fase avanzata. Era stato lo stesso Netanyahu il 25 ottobre scorso ad annunciare che una delegazione israeliana si sarebbe recata in visita nel paese per finalizzare l’accordo di normalizzazione dei legami bilaterali. Il nuovo governo di Khartoum, salito al potere dopo la fine del regime islamista di al-Bashir lo scorso anno, è spinto anche dalla necessità di ingraziarsi potenziali donatori occidentali che lo aiutino ad alleviare le disastrose condizioni economiche in cui versa la nazione. Ciononostante, l’opposizione interna alla normalizzazione delle relazioni con Israele, anche in seno al governo stesso, resta forte. In Maghreb, sono Marocco e Tunisia, che intrattengono relazioni informali con lo stato ebraico già da tempo, i candidati più probabili a compiere il passo, ma anch’essi dovrebbero scontrarsi con una forte contrarietà popolare.
Un caso a sé infine è quello della Turchia. Nel corso dell’evento, Gantz ha nominato il paese anatolico solo una volta, e – vale la pena sottolinearlo – l’ha fatto spontaneamente, parlando della tendenza all’aggressività e all’egemonia nella regione mediorientale, che secondo il Ministro si esplicherebbe “fino a un certo punto anche da parte turca: in Siria, nei paesi vicini, in Libia”, sottolineando poi come “la Turchia sia un membro della NATO e quindi si tratti di una problematica seria”. Nonostante la Turchia abbia relazioni formali con Israele sin dal 1949, la prima tra tutte le nazioni musulmane ad aver riconosciuto lo stato ebraico, nell’ultimo decennio i rapporti ufficiali si sono deteriorati a causa del sostegno offerto ai palestinesi. Il governo turco ha aspramente criticato la firma degli Accordi di Abramo, e a inizio ottobre lo stesso Gantz ha risposto a tono, accomunando la Turchia all’Iran nel “destabilizzare la regione e operare contro gli sforzi di pacificazione” e chiedendo che la NATO intervenisse per riportare il suo membro a più miti consigli. Lo spregiudicato invio da parte turca di centinaia di jihadisti siriani come mercenari a sostegno dell’Azerbaijan, che pure è alleato anche di Israele, nella recente guerra contro l’Armenia ha anzi fornito ulteriore consistenza alle accuse di destabilizzazione. È necessario però tenere in considerazione che le relazioni tra Israele e Turchia possono seguire corsi diversi sopra e sotto la superficie visibile. Daniele Santoro, analista di Limes ed esperto del mondo turco, ha argomentato in un articolo sul tema uscito due anni fa che “più la Turchia attacca pubblicamente Israele, più l’opinione pubblica mediorientale si convince che sia Ankara il principale avversario regionale dello Stato ebraico. E più la piazza araba si convince che il castigatore dei sionisti sia Erdoğan e non gli ayatollah, più Turchia e Israele sono liberi di condurre i propri affari”[1]. Affari che, in termini di interscambio commerciale tra i due paesi, sono valsi 6,6 miliardi di dollari nel 2019.
Il modello di Benny Gantz per la gestione dei conflitti in Medio Oriente è replicato sul piano domestico con i palestinesi: “Cerco di approcciare la questione tramite la sicurezza da una parte e l’impegno per la pace dall’altra”, ha affermato. “Dopo tanti anni passati a servire il mio paese, posso dire che una pace “fredda” è migliore di qualsiasi piccola guerra, per cui se ci possono essere buoni rapporti e pace sono il primo a lavorare per questi risultati”. Al tempo stesso ha posto un importante paletto, in veste di responsabile ultimo delle forze armate: “Israele non può tuttavia permettersi di fare esperimenti, non possiamo perdere una battaglia o una campagna”. Sul tema della divisione amministrativa e territoriale, è stato chiaro l’appello al pragmatismo: “ognuna delle due parti deve smettere di sognare, pensiamo alla realtà, così ci sarà spazio per gli accordi e per la collaborazione. Penso che Israele debba rispettare i propri principi, ovvero essere un paese sicuro, democratico”. Meno definita è stata invece la formula da adottare: Gantz ha parlato dell’esistenza di due diverse entità, escludendo però allo stesso tempo un ritorno agli accordi del 1967 e alla divisione di Gerusalemme.
È invece evidente che l’ex paracadutista, divenuto generale, leader politico e ora Ministro, è pronto a diventare un Capo di stato. A partire dal prossimo novembre, potrà dimostrare al mondo e soprattutto a Israele se sarà in grado di portare avanti la sua visione strategica per il Medio Oriente. “Spero che il popolo israeliano si fidi di me, io continuerò con questo approccio”.
[1] D. Santoro, L’asse profondo Turchia-Israele e il teatro dell’odio che serve a coprirlo, in Limes 9/2018, Israele, lo Stato degli ebrei