Il viaggio in Medio Oriente.
Quando G. W. Bush venne eletto presidente degli Stati Uniti dopo le più controverse elezioni del Paese, la sconfitta del rivale Al Gore preoccupò gli ebrei americani e Israele: la campagna elettorale di Bush era stata condotta puntando alla politica interna, sembrava probabile un disimpegno internazionale e dunque una minore spinta verso quel processo di pace che, dopo la delusione di Camp David, aveva più che mai bisogno del sostegno americano. Poi venne l’11 settembre e le priorità USA cambiarono. Oggi Bush, nella nuova stagione elettorale americana, visita il Medio Oriente giocando le ultime carte della sua presidenza.
Per la prima volta in Israele da presidente, Bush ha ricordato la alleanza indissolubile, i comuni nemici – il terrorismo e chi lo finanzia – la responsabilità degli Stati Uniti nel sostenere Israele come “Stato ebraico”. Non nasconde che, dopo Annapolis, il suo ultimo impegno da presidente è quello di spingere in avanti il processo di pace; così, senza le illusioni di quasi un decennio fa, le parti in causa cercano di sfruttare il clima favorito dalle elezioni americane e quindi la posta che Bush getta sul tavolo del Medio Oriente. Olmert e Abu Mazen hanno concordato di avviare negoziati sulle questioni centrali per la pace e la nascita di uno Stato palestinese: confini, insediamenti ebraici, Gerusalemme e ritorno dei profughi.
La visita di Bush in Medio Oriente tocca altri cinque paesi: Kuwait, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed Egitto. Le alleanze strategiche, la guerra in Iraq, le tensioni con Iran e Siria, sono i temi in agenda. Ma Bush sa anche che la pace tra israeliani e palestinesi passa inevitabilmente da un accordo regionale.
Nella visita del presidente americano in Israele c’è stata un’altra “prima volta”, un’ammissione, la risposta ad una domanda che il sopravvissuti alla Shoah e gli storici si ponevano da tempo.
Bush, durante la visita al Museo della Shoah Yad Vashem di Gerusalemme, si è visibilmente commosso e ha dichiarato, di fronte alle fotografie di Auschwitz scattate dallaviazione anglo-americana, che gli Stati Uniti avrebbero dovuto bombardare il campo di sterminio nazista. Ha commentato queste parole il Nobel per la pace Elie Wiesel: “Conosco molto bene le foto aeree di Auschwitz che hanno fatto piangere George W. Bush: sono stato io a regalarle a Yad Vashem. Ne possedevo due copie; l’altra l’ho regalata al Museo dell’Olocausto di Washington”. Elie Wiesel, che ad Auschwitz ha perso la madre, il padre e la sorellina, ha più volte negli anni posto questa domanda (“Perché non avete bombardato Auschwitz e la ferrovia?”) ai presidenti americani, senza ricevere mai una spiegazione. I “non sapevamo” non reggono, forse è più plausibile la spiegazione che non si voleva connotare la guerra come un’azione in difesa degli ebrei. Le stesse accuse, di non aver fermato prima lo sterminio avendone ormai consapevolezza, Elie Wiesel le ha rivolte anche all’esercito russo.