Kim Kardashian e gli haredim inglesi salvano le calciatrici afghane

Mondo

di Paolo Castellano

Dopo l’arrivo dei talebani al potere, le atlete afghane corrono costantemente il rischio di venir punite con metodi violenti per la trasgressione della dottrina islamica.

Preoccupata per la condizione delle donne, la comunità haredi di Stamford Hill ha deciso di intraprendere una missione di salvataggio per portare nel Regno Unito un gruppo di 30 calciatrici adolescenti afghane insieme ad altre 100 persone minacciate dall’intolleranza talebana.

Per fare questo, gli ebrei ultraortodossi britannici hanno lanciato un appello alla influencer Kim Kardashian per finanziare un aereo che facesse atterrare a Londra i rifugiati afghani. La star dei social ha infatti accolto la proposta del rabbino haredi Moshe Margaretten con cui aveva già collaborato in passato in merito alla riforma carceraria degli Stati Uniti.

Come riporta Jewish News, l’iniziativa è stata organizzata anche con il contributo del proprietario del Leeds United Football Club, Andrea Radrizzani, che ha accettato di fornire un supporto economico alla nuova vita londinese delle calciatrici afghane.

«Ringrazio il mio amico Moshe Margaretten e la mia nuova amica Kim Kardashian. Hanno reso possibile l’impossibile», ha dichiarato Levi Shapiro, capo del Jewish Community Council (JCC) di Stamford Hill, che ha lavorato con il Ministero degli Interni del Regno Unito per garantire un viaggio sicuro alle calciatrici.

«È stata una missione incredibile. Moshe Margaretten ha lavorato per portare in salvo gli afghani e si è rivolto a noi nel Regno Unito per aiutarli. Se fossero rimasti in Afghanistan, è probabile che sarebbero stati uccisi dai talebani».

Shapiro ha poi sottolineato di aver già incontrato le ragazze e le loro famiglie a Stansted: «Sono un gruppo fantastico. Sono rimasti nascosti per dieci settimane. Ci sono bambini piccoli, i cui genitori sono caduti nei combattimenti, che erano sottopeso e in condizioni critiche. Gli abbiamo dato cibo fresco e ci siamo presi cura di loro come se fossero i nostri fratelli, i nostri figli».