di Ester Moscati
Tre generazioni a confronto: ma chi sono i giovani jewish Usa che in nome dei diritti umani scendono in piazza contro Israele? E perché lo fanno? Ecco come il 7 ottobre ha cambiato il sentiment degli ebrei americani su Israele. Un divorzio annunciato. Lo spiega il giurista e pensatore Noah Feldman
«Not in my name»: è uno slogan che le giovani generazioni ebraiche in Italia e in Europa hanno usato di recente per dissociarsi da alcune politiche del governo israeliano. Creando così malumori nella generazione dei loro genitori (e nonni) che per lo più tendono, almeno nei momenti più duri per Israele, a schierarsi con lo Stato ebraico “senza se e senza ma”. Molto più di una battaglia di slogan: siamo davanti a uno scontro generazionale, come non si vedeva dagli anni Settanta. È una metamorfosi ideologica nel quadro dell’identità ebraica, che rischia di modificare l’assetto dei rapporti tra Israele e Diaspora in un prossimo futuro. E se è vero che ciò che succede negli Stati Uniti è destinato ad approdare in Europa dopo pochi anni, che cosa accadrà in Italia, che cosa ne sarà del legame tra ebrei italiani e Israele nel futuro prossimo? La domanda è ineludibile e urgente, almeno da ciò che possiamo cogliere dalla lettura di un saggio di Noah Feldman, professore di diritto all’Università di Harvard, editorialista per Bloomberg Opinion e autore di Essere un ebreo oggi: una nuova guida a Dio, Israele e il popolo ebraico. Una parte ampia di questo saggio è stata pubblicata sul Washington Post, il 5 marzo 2024. Della riflessione di Feldman, è particolarmente interessante la parte che riguarda i giovani ebrei della Gen Zeta (la generazione dei trentenni), che si contrappone ai liberal, critici sì, ma ancora saldamente, nel momento del bisogno, dalla parte di Israele. Feldman analizza la situazione e le ragioni di una svolta che, forse, sarà definita “epocale” se, come si teme da più parti, finirà per togliere a Israele il sostegno incondizionato dell’ebraismo americano e, di conseguenza, la partnership privilegiata con gli USA.
Il conflitto a Gaza, seguito alla strage del 7 ottobre perpetrata con inaudita ferocia da Hamas, ha messo gli ebrei di tutto il mondo nella condizione di affrontare l’impatto e il significato di Israele sulle loro vite e sui loro sentimenti più profondi. Ma paradossalmente, per i giovani ebrei americani, l’orrore del pogrom contro inermi civili israeliani non si è tradotto in solidarietà incondizionata ma ha rivelato la complessità del sentiment verso Israele, una “dissociazione morale” difficile da comprendere.
Un doloroso conflitto generazionale
Viene da chiedersi: abbiamo perso una generazione ebraica? Forse sì. “La comunità degli ebrei americani progressisti sta attraversando un doloroso conflitto generazionale: una lotta familiare venata di amore e dolore. Da un lato – scrive Feldman – ci sono persone che hanno più o meno la mia età: i leader del movimento della Gen X (la generazione dei cinquantenni), sia rabbini sia laici. Dall’altra parte del conflitto ci sono i ragazzi, le cui opinioni su Israele sono spesso molto diverse. Alcuni ventenni-trentenni progressisti della Generazione Zeta partecipano ad organizzazioni universitarie come Studenti per la Giustizia in Palestina”. Due mondi in collisione, due visioni del mondo contrapposte.
I cinquantenni “sono, per la maggior parte, democratici di centro o di centrosinistra. I leader ebrei progressisti della generazione X sono (ancora) sionisti liberali. Amano Israele. Lo criticano anche. Desiderano che Israele sia più giusto nei confronti dei palestinesi. Vorrebbero che ci fosse una soluzione al conflitto israelo-palestinese. Hanno le proprie organizzazioni sioniste liberali, come J Street, un corpo di lobbying che si autodefinisce ‘la sede politica degli americani filo-israeliani e filo-pace’, e il New Israel Fund, il cui obiettivo è promuovere la democrazia liberale, compresa la libertà di parola e i diritti delle minoranze, e combattere la disuguaglianza, l’ingiustizia e l’estremismo” che rischiano di minare i valori e l’immagine di Israele. “Quando però Israele viene attaccato, – precisa Feldman – la Gen X risponde con solidarietà e sostegno. Il loro impegno verso lo Stato ebraico e verso gli altri ebrei è indiscusso”.
Non accade lo stesso per la Gen Zeta. La descrizione che Noah Feldman fa della Gen Zeta apre uno scenario più inquietante per il futuro delle relazioni tra ebraismo americano e Israele. I giovani tra i venti e i trent’anni “si riconoscono – scrive – nell’organizzazione Studenti per la Giustizia in Palestina, un collettivo di organizzatori che sostiene oltre 200 organizzazioni di solidarietà con la Palestina nei campus universitari. Il 12 ottobre, mentre Israele iniziava la sua risposta all’attacco di Hamas contro i civili israeliani, l’ufficio nazionale dell’SJP ha postato sui social media ‘condannando il progetto sionista e il loro ultimo attacco genocida contro il popolo palestinese’. Jewish Voice for Peace addirittura sostiene la campagna BDS di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni e lavora a fianco di SJP. Il suo sito web vanta 60 capitoli, 200.000 sostenitori e 10.000 donatori. L’organizzazione afferma di ‘essere guidata da una visione di giustizia, uguaglianza e libertà per tutte le persone’. Ne consegue, per JVP, che ‘ci opponiamo inequivocabilmente al sionismo perché è contrario a quegli ideali’. Il 14 ottobre, l’organizzazione ha pubblicato: ‘Come ebrei statunitensi [noi] crediamo che mai più significhi mai più per nessuno, e questo include i palestinesi. Mai più è adesso’, affermano”.
Giovani ebrei antisionisti: perché?
“Sembra probabile – precisa Feldman – che una percentuale relativamente piccola di ebrei progressisti della generazione Zeta si sia radicalizzata fino al punto di dichiararsi apertamente antisionista”. Triste? Sì. Così molti ragazzi arrivano a rinnegare Israele in nome dei diritti umani e di una idea fuorviante di colonialismo di cui Israele sarebbe l’emblema, secondo le derive più assurde dell’ideologia terzomondista.
Tuttavia, nel suo saggio, il docente di Harvard sottolinea come alcuni temi siano particolarmente sentiti dai giovani ebrei, soprattutto universitari, che vivono quotidianamente in un contesto sempre più impregnato di ideologia woke, semplicistica e manichea.
“Molti sono in conflitto su cosa dovrebbero ‘pensare’ di Israele. – scrive Feldman – Altri preferirebbero non pensarci affatto. Ma sono tantissimi quelli che si sono convinti dell’analogia, propagandata nei campus universitari, tra l’Israele di oggi e il Sud Africa ai tempi dell’apartheid”.
Lo scontro generazionale si dipana quindi su “tre età”. Ci sono ancora i senior che, attraverso l’American Israel Public Affairs Committee, hanno coordinato negli ultimi decenni gran parte delle pressioni pro-Israele da parte degli ebrei americani. E si alleano strettamente con qualunque governo sia al potere in Israele.
Poi ci sono i leader e gli attivisti ebrei progressisti delle generazioni X e Z. “Si trovano in disaccordo tra loro riguardo a Israele. – spiega Noah Feldman – L’antagonismo è doloroso per entrambe le parti, come spesso lo sono i conflitti generazionali. I progressisti di mezza età pensano che i ragazzi non siano riusciti a capire quanto importante dovrebbe essere Israele per loro in quanto ebrei. I ragazzi invece sono convinti che i ‘vecchi’ siano impantanati in un’ideologia screditata. Voglio suggerire che la spaccatura generazionale rifletta non due diverse concezioni di ebraicità progressista, ma due diverse visioni di Israele, rifratte attraverso un impegno comune per la giustizia sociale. L’ebraismo progressista esprime ciò che considera i valori biblici di giustizia, uguaglianza, libertà e simili”.
Fedeli ai valori ebraici, non a Israele
La “fedeltà”, per entrambe le generazioni, sembra andare quindi più all’ebraismo e al suo sistema valoriale piuttosto che a Israele. Lo Stato ebraico, a seconda dei casi, dei sentimenti e delle ideologie di riferimento, non sembra più incarnare quei valori, almeno non sempre e non del tutto.
Nel sistema di valori rientra il rapporto tra Shoah e Israele. “L’Olocausto è diventata una lezione morale, il Never Again – scrive nel suo saggio Feldman – alla pari della schiavitù degli ebrei in Egitto. Israele divenne un modello di redenzione; poteva svolgere questo ruolo perché era possibile immaginare lo Stato ebraico come liberale e democratico”. Ma se Israele non incarna più i valori della democrazia liberale, per la generazione Zeta “non può fungere da ideale morale per gli ebrei progressisti le cui convinzioni impongono la dignità umana universale e l’uguaglianza. Nei termini più crudi possibili, – sintetizza Feldman – un Dio di amore e giustizia non può benedire o desiderare uno Stato che non cerca di garantire uguaglianza, dignità o diritti civili e politici a molte delle persone che vivono sotto la sua autorità”. Non si prendono in considerazione, in questo ragionamento, solo i cittadini israeliani, ebrei o arabi o appartenenti alle altre minoranze, che godono di pari diritti in Israele, ma anche i palestinesi della Cisgiordania, sottoposti a “occupazione” militare.
“Per gli ebrei progressisti, – secondo l’analisi di Feldman – uno Stato che nega la parità di trattamento ai suoi ‘sudditi’ non è né democratico né propriamente ebraico. Né è democratico nel senso politico progressista americano. Da ciò ne consegue che per gli ebrei progressisti sinceri e impegnati, rimanere sionisti sarebbe un tradimento dei loro valori ebraici, se Israele non corrispondesse agli ideali della democrazia liberale”. Quindi, se i sionisti pensano che i progressisti ebrei americani debbano a Israele una totale e incondizionata lealtà, i progressisti ebrei ritengono invece di dovere la loro lealtà ai principi divini di amore e giustizia.
Un conflitto di valori? Sì. Dopo il 7 ottobre, le immagini degli israeliani assassinati e presi in ostaggio ricordano gli orrori dell’Olocausto. D’altra parte, Israele è uno Stato-nazione dove attualmente governa una leadership le cui azioni e opinioni differiscono da quelle dei progressisti ebrei americani. Anche i più riflessivi tra i giovani progressisti si trovano ad affrontare una sfida profonda. Credono negli insegnamenti della giustizia sociale che li costringono all’azione sociale. Ma scoprono di non poter evitare quella che vedono come la realtà contraddittoria di Israele. Le loro convinzioni sulla moralità ebraica e sul tikkun ‘olam rendono difficile un incondizionato sostegno a Israele. “La loro soluzione – la loro soluzione ebraica, progressista e sinceramente sentita – è esprimere la propria fede nella giustizia sociale criticando o condannando Israele per i suoi fallimenti in termini di uguaglianza, libertà, dignità e diritti umani. Emerge – dice ancora Feldman – che i giovani ebrei progressisti, critici di Israele, sentono un legame non dichiarato con Israele anche se lo respingono. Non sentono alcun impegno nei confronti dello Stato esistente. Ma sentono un particolare bisogno di criticare Israele perché è importante per la loro visione del mondo in quanto ebrei. Non possono ignorare Israele, così lo coinvolgono nelle loro vite, attraverso il veicolo della critica progressista”. La frase “Not in my name – non nel nostro nome” coglie il senso di un rapporto di odio-amore, un ripudio che è allo stesso tempo il segno di una connessione ineludibile. “Questo è il motivo – spiega il saggio – per cui molti giovani ebrei progressisti sono in prima linea nel movimento filopalestinese nei campus universitari. Per quanto difficile da accettare per le generazioni più anziane, la causa non è l’odio verso se stessi. Piuttosto, la critica a Israele e il sostegno alla causa palestinese costituiscono l’essenza della loro progressiva espressione di sé in quanto ebrei”.
Ma che cosa accadrà quando i giovani di oggi diventeranno adulti e assumeranno la leadership dei loro movimenti? Acquisiranno una visione più pragmatica? Avranno una più chiara consapevolezza delle ragioni di Israele? “Il giudaismo progressista – conclude Feldman – dovrà elaborare il suo atteggiamento a lungo termine nei confronti di Israele”. Forse questa generazione declinerà la propria ebraicità in altri modi: familiare, spirituale e personale, anche se l’ebraismo “vivo” non può prescindere da una dimensione collettiva. Ma che cosa ne sarà dei rapporti tra Stati Uniti e Israele, se dovesse mancare l’appoggio degli ebrei americani allo Stato ebraico? È una incognita per tutto l’Occidente.