di Nathan Greppi
Dopo il 7 ottobre, è diventato sempre più evidente come media arabi quali Al Jazeera si prestino spesso a fare da megafono alle narrazioni di Hamas e Hezbollah, lungi dal condurre un lavoro deontologicamente corretto. E a Gaza, è emerso che diversi giornalisti di Al Jazeera presenti sul posto erano essi stessi affiliati a Hamas e alla Jihad Islamica.
Chi ha vissuto sulla propria pelle la parzialità di certi media è la giornalista svedese Suzan Quitaz: nata in una famiglia curda costretta a lasciare l’Iraq sotto il regime di Saddam Hussein, dal 2014 al 2021 ha lavorato presso l’emittente televisiva qatariota Al-Araby, dopo brevi esperienze presso la BBC e la Sveriges Radio, emittente pubblica svedese. In seguito, ha collaborato con la rivista saudita Al-Majalla e il MEMRI (Middle East Media Research Institute). Dopo aver vissuto a lungo nel Regno Unito, oggi risiede in Israele, dove lavora come ricercatrice presso il Jerusalem Center for Public Affairs (JCPA).
Lei ha lavorato per diversi anni presso “Al-Araby”.
Sì, e ho anche lavorato come freelance per il giornale The New Arab, anch’esso di proprietà del Qatar, oltre ad aver realizzato dei documentari per Al Jazeera.
Come veniva trattato Israele nei programmi dell’emittente?
Soprattutto nei primi anni in cui ci ho lavorato, ad Al-Araby non ci era permesso di offrire uno spazio ad israeliani ed ebrei. Quando volevano parlare di Israele, non invitavano quasi mai un ebreo israeliano, e si riferivano sempre a Israele come “l’entità sionista” o “l’entità dell’occupazione”. Sebbene il canale avesse sede a Londra, non erano per nulla obiettivi quando si trattava d’Israele.
Quando mi candidai per quel lavoro, la mia ambizione era quella di coprire Israele. Mi ci sono voluti due anni prima che mi permettessero di invitare degli israeliani a parlare del loro paese. In precedenza, per parlare d’Israele invitavano solo dei palestinesi, sostenitori di Hamas, della Jihad Islamica o nel migliore dei casi dell’Autorità Nazionale Palestinese.
Successivamente, ha lavorato per la rivista saudita “Al-Majalla”. Che differenza ha riscontrato tra i media sauditi e quelli qatarioti?
Sarò onesta; per la prima volta mi sono sentita libera di fare il mio lavoro di giornalista, senza subire restrizioni, intimidazioni o di essere chiamata in modo dispregiativo “sionista” e “agente del Mossad”. Mi hanno permesso di coprire l’argomento in materia oggettiva, raccontando aspetti sia buoni che cattivi d’Israele, che veniva chiamato “Stato d’Israele” e non “entità sionista”. Non fraintendermi: avevano posizioni fortemente filopalestinesi, ma erano comunque equilibrati.
Nel luglio 2022, lei ha scritto un articolo per “Al-Majalla” sui soldati arabi e musulmani che servivano nell’esercito israeliano…
Una storia come quella non verrebbe mai raccontata sui canali qatarioti, nemmeno tra un milione da anni. Non è che non riconoscano il fatto che esistano soldati musulmani nell’esercito israeliano, ma li etichetterebbero come “traditori”, “sionisti assassini” o “gente che ha dimenticato le proprie radici”. I sauditi, invece, mi hanno dato una videocamera per andare a intervistarli. E l’intervista era sulle persone, non su ciò che io pensassi di loro.
Non era mai successo prima che un media arabo parlasse dei soldati israeliani in quel modo. All’articolo è stata dedicata una copertina della rivista, ed è stato tradotto in diverse lingue, tra cui il farsi, il tedesco e lo svedese.
Come è stato recepito, invece, da parte del pubblico arabo?
Avendo ottenuto centinaia di migliaia di condivisioni, ha ricevuto anche numerose critiche. Ma erano critiche del tipo “non dovete condividere queste storie, perché così normalizzate le relazioni con Israele”. Tuttavia, alcuni giornalisti arabi, pur non condividendone il contenuto, hanno riconosciuto che era un articolo basato su fatti e ricerche. Purtroppo, la pressione da parte dei contestatori è andata avanti a lungo, tanto che circa sei mesi dopo la pubblicazione il direttore della rivista ha perso il lavoro.
Che cosa è cambiato nei media arabi dopo il 7 ottobre?
Per quanto riguarda Al Jazeera, sia nella versione in inglese che in quella in arabo, hanno iniziato fin dall’inizio a parlare di genocidio. Hanno adottato due pesi e due misure: nel parlare delle vittime palestinesi, hanno messo in evidenza l’aspetto emotivo, mostrando uomini e donne che piangono perché hanno perso i loro figli; quando invece parlano delle vittime israeliane del 7 ottobre, lo fanno molto più brevemente ed etichettandoli come “coloni”. Ad esempio, i piccoli fratelli Bibas, i bambini israeliani rapiti da Hamas con la loro madre, sono stati mostrati su Al Jazeera, ma senza alcuna empatia.
A volte, per aumentare la simpatia nei confronti dei palestinesi, hanno rimandato in onda materiale di repertorio legato ad altre guerre, come il conflitto in Siria o gli attacchi di Erdogan contro i curdi, ma che non erano legati alla situazione a Gaza.
Intende dire che hanno falsificato i servizi?
Direi piuttosto che li hanno esagerati. È un fatto che persone innocenti stanno morendo in guerra, ma quello che hanno fatto è stato rendere il tutto più sensazionalistico. E sì, ci sono stati casi di storie false, come quando Al Jazeera ha riportato che l’IDF stava stuprando donne palestinesi. L’hanno pubblicato sul loro sito, ma in meno di 24 ore hanno rimosso la storia, ammettendo che non era vero. Ma nel frattempo era diventato virale, e la gente ha iniziato a condividere la storia, nonostante persino Hamas abbia smentito la notizia in un comunicato.
In questa situazione, ci sono state delle differenze tra i media qatarioti e sauditi?
Se si guarda il canale saudita Al Arabiya, il principale rivale di Al Jazeera, hanno offerto una copertura molto più genuina. Hanno mostrato i punti di vista di entrambe le parti. Ma a differenza di Al Jazeera, che ha parlato dei terroristi di Hamas come di un movimento di “resistenza”, Al Arabiya ha ospitato esponenti di Hamas ma facendo loro domande scomode, ad esempio chiedendo loro cosa si aspettassero dopo aver massacrato anziani, donne e bambini il 7 ottobre.
Per il JCPA, lei si è occupata anche di relazioni israelo-curde. Rispetto agli arabi, come sono schierati i curdi su Israele?
Vi è un enorme differenza. I principali oppressori dei curdi sono sempre stati i musulmani arabi, turchi e persiani. Per questo i nazionalisti curdi vedono Israele in maniera diversa, poiché hanno un nemico in comune. E quando parlo di un nemico comune, non mi riferisco a tutti gli arabi, ma ai fascisti e agli islamisti. Gli arabi che ancora oggi non riconoscono a Israele il diritto di esistere spesso sono gli stessi che non riconoscono ai curdi il diritto ad avere un proprio Stato.
Tuttavia, nonostante sostengano Israele, molti curdi hanno troppa paura per esporsi pubblicamente, specialmente se vivono in Iran, in Turchia o in Iraq. E questo nonostante Israele sia l’unico paese al mondo che nel 2017 ha riconosciuto la legittimità del referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno.
Intervistata nell’agosto 2024 dal “Jerusalem Post”, ha dichiarato che la mentalità antisraeliana dei media arabi sta contagiando anche i media occidentali.
Prima ancora di quell’intervista, avevo partecipato ad una conferenza sul tema nel marzo 2023, prima del 7 ottobre. In quell’occasione, ho spiegato che non ci sarà mai la pace finché ci saranno canali come Al Jazeera. Questo perché Al Jazeera non è un media privato, come la CNN o Fox News, ma prende soldi dall’emirato del Qatar, del quale riflette la politica estera. E ciò è molto pericoloso, perché la versione in inglese viene vista dagli occidentali, le cui menti vengono corrotte perché l’emittente è obiettiva su altri conflitti, ma non su Israele.
Non va dimenticato inoltre che il Qatar è assai ricco, e per questo possiedono anche diversi altri media in inglese, come Middle East Eye e The New Arab, e spendono molti soldi per finanziare le università occidentali e quei professori che sostengono la loro narrazione.