Come resistere quando il nostro mondo va in pezzi

Mondo

Illustrazione di Noa Kelner, concessa gratuitamente come contributo al momento drammatico che Israele sta attraversando.

 

di Ester Moscati

Tristezza, rabbia, angoscia, sentimenti che rischiano di lasciare un segno profondo. Come attivare la resilienza e reagire a paura e senso di instabilità? Come si altera il nostro cervello e come “ripararlo”? La parola a medici, psicoterapeuti, neuroscienziati

 

«Uno spartiacque. Il 7 ottobre abbiamo perso la sicurezza di uno Stato che ci doveva proteggere e ci siamo trovati di fronte allo specchio della fragilità, perché nessuno ci può proteggere al cento per cento; sono state rievocate emozioni che credevamo di avere metabolizzato, a partire dai ricordi della Shoah. Svegliarsi un giorno festivo, che doveva essere di pace familiare… e poi tutto è andato in pezzi. La frantumazione ha portato al riemergere dei fantasmi; insieme all’orrore per l’evento in sé sono stati rievocati tutti gli eventi traumatici del passato, sia vissuti in prima persona sia come memoria storica. Questo effetto rievocativo è stato devastante e ha portato a sentirci in pericolo, senza la certezza che ci fosse una protezione». Così la psicologa e psicoterapeuta Daniela Di Veroli risponde alla domanda di Bet Magazine su che cosa sia accaduto alla psiche collettiva ebraica dopo il 7 ottobre. Angoscia, rabbia, tristezza, paralisi dell’azione, disregolazione emotiva, smarrimento, attacchi d’ansia… La memoria degli antenati che riaffiora, emozioni e racconti del passato riemergono. Il paesaggio emotivo dei nostri padri e nonni che resuscita dentro di noi.

Secondo Di Veroli, quello che è successo in termini psicoanalitici si chiama “caduta del pensiero onnipotente infantile”, un pensiero “magico”, tipico dell’infanzia ma che ci portiamo anche nell’età adulta, per cui i genitori ci proteggeranno sempre; in questo caso, come ebrei, è Israele il “genitore” dal quale ci sentivamo salvaguardati. Vivevamo nell’illusione che potesse proteggerci sempre, ma questo pensiero è crollato il 7 ottobre. Da qui lo shock e il bisogno di stringersi l’uno con l’altro. Un bisogno che si è concretizzato anche nella ricerca di una via per riconoscere, affrontare e superare il trauma collettivo. Alcuni enti ebraici a Milano, come l’AME (Associazione Medica Ebraica), l’ADEI WIZO e la stessa Comunità, si sono attivati e hanno organizzato – on line e in presenza – alcuni incontri in cui psicologi e pubblico hanno potuto confrontarsi. La Scuola ebraica ha di recente avviato con un gruppo di esperti un progetto che ha l’obiettivo di definire delle linee guida che possano sostenere l’attività educativa in un contesto di stress aumentato.

Daniela Di Veroli ha tenuto tre meeting per l’AME, in cui è stata palpabile l’ansia e la necessità di condividere i propri stati d’animo. Depressività diffusa, sconcerto, paura… Ma anche la frustrazione per l’evidenza che tutto quello che è stato fatto finora per fare conoscere la nostra storia e i nostri valori non è servito a nulla, di fronte al pregiudizio antisemita e antisionista che sta dilagando. E ancora la sbigottita incredulità per il fallimento dell’intelligence israeliana che non ha saputo prevenire il massacro. E la delusione dolorosa per il silenzio di troppi amici non ebrei che non hanno saputo essere solidali e confortarci. “Ciò che fa più male non è la crudeltà dell’oppressore ma il silenzio di chi ne è testimone”, scriveva Elie Wiesel.

«Lo shock – commenta Daniela Di Veroli – viene dal fatto che questo pogrom, questa violenza, è accaduta in Israele e non in Europa; è accaduta nel posto in cui, nonostante gli attentati che non si sono mai fermati in tutti questi anni, nonostante i missili, ritenevamo gli ebrei fossero più protetti. Per la prima volta dopo l’Olocausto abbiamo paura per la nostra sopravvivenza fisica».

 

Come si manifesta un trauma collettivo
Ma quali sono i segni del trauma e quali i sintomi che hanno toccato molti di noi? «I segnali sono molteplici, per esempio l’insonnia – dormire ci rende in qualche modo ‘vulnerabili’ -, e le apnee notturne, che si manifestano soprattutto nelle famiglie dove ci sono figli che si trovano in situazione di pericolo ‘potenziale’ nell’andare a scuola, in sinagoga… Dovremmo cercare di mettere i nostri figli al riparo dalla nostra paura, dall’idea-ansia che ci assale, il che è particolarmente difficile in un quadro in cui si avverte una forma di ‘persecuzione’. E il tutto diventa paralizzante». Non a caso, dopo il 7 ottobre, per giorni interi non siamo riusciti a staccarci dai TG e dai cellulari in una “fame di notizie” ossessiva, con un accesso compulsivo ai social, per “esserci”, connettersi e condividere.

«I fatti accaduti non hanno risparmiato nessuno – spiega Di Veroli – ed è un evento disumanizzante che appartiene a tutti; quello che non si riesce a capire in Occidente è che questa disumanizzazione è destrutturante per tutti, non solo per israeliani e ebrei. È un lutto: abbiamo subìto un lutto che deve essere elaborato con i tempi necessari. E la capacità di elaborarlo dipende dalla storia personale di ciascuno, così pure come l’elaborazione delle immagini visive che sono arrivate senza filtri, in tempo reale, mentre la capacità del cervello umano di metabolizzare queste informazioni e queste immagini è molto più lenta».

 

Ma trattandosi di un trauma collettivo, è possibile una catarsi collettiva per uscire da questa situazione? «No – risponde Di Veroli -: è possibile una condivisione ma la terapia, ove necessaria, deve essere individuale perché ognuno reagisce in maniera diversa a questo evento.

C’è stato un grande bisogno di condivisione e di rafforzamento dell’identità che poteva essere più o meno forte in ciascuno di noi, ma questo evento l’ha rafforzata, tanto è vero che tutti, soprattutto in Israele, si sono mobilitati per fare qualche cosa insieme e per gli altri. Condividere e agire sono la prima risposta positiva al trauma. Poi c’è la fase dell’elaborazione del lutto e in molti casi andrà affrontato il disturbo post-traumatico da stress. Una delle terapie possibili è la terapia artistica onde ‘scotomizzare’ (eliminare dalla memoria) la paura dei mostri; questo vale per i bambini ma non solo, perché l’arte, la creatività, fa accedere a parti di sé profonde. Se le persone avevano già delle problematiche pregresse, l’effetto è stato devastante, deflagrante. Non va dimenticato che questo trauma arriva dopo la pandemia di Covid, che ha destabilizzato il mondo; il caso di questo pogrom invece potremmo definirlo una ‘pandemia psichica’, le radici sono state scosse profondamente. Per questo c’è bisogno di stabilità, di ritrovare una ‘terra che non trema’».

 

Uno stato depressivo, un profondo abbattimento psichico

«Dopo il 7 ottobre – racconta a Bet Magazine Giulia Remorino Ibry, psicologa e psicoterapeuta – c’è stato un forte sgomento, soprattutto tra i miei pazienti più giovani. Io mi occupo di persone che hanno fragilità e che si sono sentite bloccate, in isolamento e hanno dimostrato scarsa reattività; in generale tutti sono caduti in uno stato depressivo, in un profondo abbattimento psichico. Ho notato che c’è stata una differenza tra chi è più laico, e che ha avuto meno punti di sostegno, e chi invece è un ebreo religioso, sostenuto dalla fede, che ha avuto più capacità reattiva. La maggior parte di loro ha sviluppato una maggiore consapevolezza e la voglia di esprimersi. Il mio lavoro è proprio quello di aiutare i pazienti a tirare fuori le proprie risorse e di stimolare un ‘ideale trasformativo’. Nella mia esperienza di post trauma – continua Remorino – in questi anni Duemila c’è stato un crescendo di problematiche. Tutti qui, oggi, abbiamo esperito un “pogrom dell’anima”, le dinamiche del terrore sono le stesse. Ma laddove si è rafforzata l’identità ebraica di appartenenza e i nostri valori, allora da tutto questo male può scaturire qualche cosa che sboccia. Abbiamo una storia, una forza. La nostra forza è l’ideale del Tikkun Olàm, la ‘riparazione del Mondo’, la resilienza. Io vengo da una famiglia sionista e appoggiarci ai nostri valori ci aiuta sempre».

 

Ma come aiutare i pazienti ad affrontare questo terribile momento? «Io mi occupo anche di terapia familiare ma in questo frangente la terapia individuale aiuta ad affrontare il trauma in tempi più brevi; il gruppo ci dà un senso di appartenenza ma la dinamica trasformativa individuale è più efficace. I sintomi del post trauma sono attacchi di panico, paranoie, senso di persecuzione. Molti miei pazienti hanno tolto la mezuzà dalla porta e si ‘nascondono’; i ragazzi mi raccontano delle prove di evacuazione a scuola e della necessità di sentire che c’è un ‘controllo’. Ci sono difficoltà di concentrazione, rituali ossessivi. Bisogna stare molto attenti a non usare tecniche troppo invasive e rapide perché il trauma ha bisogno di tempo per essere affrontato in modo efficace; quindi usare delle tecniche senza un adeguato percorso psicologico diventa pericoloso. Bisogna riconoscere la struttura del Sé, collocare l’esperienza in modo sano e sviluppare, attraverso il terapeuta, la consapevolezza delle proprie possibilità di gestire la paura, per affrontarla. La paura va riconosciuta; spesso cerchiamo di rimuoverla ma questo è peggio. Siamo umani, siamo in questa dimensione difficile che non ci aspettavamo e dobbiamo dare il nome alla paura e partire da lì per mostrare la forza della nostra umanità. Certi bambini hanno un atteggiamento di chiusura, si irrigidiscono ma la paura va affrontata. Il nostro carnefice si è allontanato dalla dimensione umana e quindi la paura è perfettamente logica e inevitabile. Va riconosciuta e affrontata con coraggio. Con un bambino adottiamo delle tecniche, attraverso il disegno e il gioco, sedendoci accanto a lui a giocare anche con dei pupazzetti per ricostruire fisicamente delle situazioni. Con l’adulto si parla, ma anche con l’adulto, per superare questi traumi, sono efficaci le attività creative e in particolare l’analisi immaginativa tramite la visualizzazione, che ci porta ad approdare a strati molto profondi del nostro essere».

 

Israele: come reagire
In Israele moltissimi sono affetti da disturbi da shock post-traumatico; da anni i bombardamenti costringono i bambini nei rifugi, da anni la paura degli attentati è costante, un trauma che attraversa tutta la società. In Israele, chi direttamente, chi indirettamente, tutti sono stati toccati e coinvolti nell’orrore del 7 ottobre; ci sono gruppi di esperti volontari che istruiscono gli psicologi generici per affrontare i traumi dei loro pazienti attuali e futuri: traumi acuti e sindrome post-traumatica, tra adulti e bambini. Non basta più la terapia della parola, la terapia tradizionale; di fronte a shock di questo tipo ci sono in campo altre tecniche esperienziali, creative, fisiche.
Come scrive sulla sua pagina Facebook Roberto Della Rocca, uno degli italkim che ci ha aiutati a conoscere la situazione da “dentro”, in questi mesi, “Tutto il paese, volente o nolente, giace in una specie di depressione comune, post-trauma, anche quelli che non lo ammettono perché non lo capiscono, o pensano che sia una vergogna, da nascondere”.

Bet Magazine ne ha parlato con Claudia Sabbadini, psicoterapeuta esperta in EMDR (“desensibilizzazione e rielaborazione tramite movimenti oculari”, una psicoterapia usata per trattare gli eventi traumatici e stressanti). Sabbadini è addetta e responsabile di équipe di paramedici nelle scuole speciali del Ministero dell’educazione d’Israele. Da quando è iniziata la guerra si è attivata come volontaria per l’associazione israeliana EMDR per supportare le famiglie dei rapiti, le famiglie delle persone assassinate e anche i sopravvissuti del 7 ottobre. Per gli incontri di BenEssere Donna dell’ADEI WIZO ha tenuto un meeting sul tema. «In Israele lo shock del 7 ottobre è stato sconvolgente; io lavoro con un’équipe di paramedici e all’inizio le persone che abbiamo incontrato non riuscivano fisicamente a tirare fuori nemmeno una parola. C’è stato un mutismo fisico dovuto alla prima reazione di shock; poi le emozioni si sono diversificate in disperazione, tristezza, paura, panico. Le persone sono costantemente nervose e dichiarano di aver subito un cambiamento anche nelle loro relazioni all’interno della famiglia; si litiga di più, si è estremamente reattivi ai rumori. Come terapeuti cerchiamo subito di far capire che tutte queste reazioni sono ‘normali’ in una realtà ‘anormale’ e dobbiamo legittimare le varie emozioni, ad esempio l’auto-compassione e non criticare se stessi. Capire che è necessario avere molta pazienza. Siamo intervenuti in una scuola dove una maestra è stata rapita da Hamas insieme al figlio di 9 anni e ai genitori, mentre il fratello è stato ucciso. I bambini, in suo onore, hanno posto una sedia nella classe con scritto ‘Keren ti aspettiamo’, (Keren e il figlio Ohed sono stati rilasciati il 24 novembre nel primo scambio ostaggi/detenuti tra Israele e Hamas, ndr) e hanno fatto una festa di compleanno per suo figlio che ha compiuto i 9 anni da prigioniero. Siamo in una fase di lutto, si vive alla giornata; ora non si può pensare troppo al futuro.

Le nostre anime sono sotto shock, – spiega Sabbadini – ci manca la fiducia e il terreno non è stabile. È come vivere in una situazione di terremoto, cioè le nostre basi, le nostre fondamenta si muovono. Per affrontare questo, ai bambini in particolare dico di camminare scalzi, in modo da sentirsi più vicino al terreno». Come in Italia, tanto più in Israele si avverte la necessità di sentirsi molto vicini gli uni agli altri. Anche nell’emergenza bisogna cercare di ricostruire una routine quotidiana, soprattutto per i bambini. «Dobbiamo tornare ad essere noi stessi. Da ricerche effettuate dopo le catastrofi sappiamo che la grande percentuale della popolazione ha una buona resilienza e si rimetterà; ma un terzo della popolazione israeliana svilupperà una sindrome post-traumatica. Come équipe abbiamo messo in atto un vero pronto soccorso psicologico per attuare terapie anche collettive per gruppi omogenei, cioè i sopravvissuti dei kibbutz, i ragazzi sopravvissuti al massacro del Nova Festival, le famiglie delle vittime, quelle dei rapiti e i parenti dei soldati in servizio a Gaza. Questo per rafforzare un senso di unione che essi stessi chiedono e cercano, in modo da sentirsi capiti da chi ha vissuto la loro stessa esperienza. Il senso di unità nazionale di fronte a questo evento si è straordinariamente rafforzato, come provano le centinaia di azioni di volontariato, che è esso stesso una forma di terapia di gruppo, perché ‘agire insieme’, fare insieme delle cose, ci aiuta ad affrontare quello che è stato un dramma collettivo. Il primo step, prima ancora di riconoscere il trauma, è quello di rafforzare le risorse individuali per affrontarlo, perché far riemergere il trauma senza queste risorse è pericoloso. La tecnica che noi usiamo, l’EMDR, è una psicoterapia di stimolazione cerebrale che tratta diversi problemi post-trauma. Dobbiamo ricostruire una base su cui appoggiare saldamente i piedi. Dopo il 7 ottobre – conclude Sabbadini – siamo molto più preparati, come dopo un tradimento, e quindi possiamo ricostruire la nostra sicurezza».

 

I ricordi dei pogrom in Libia

Yoram Ortona: ho rivissuto il 5 giugno 1967 a Tripoli

Tra i ricordi rievocati dal 7 ottobre non c’è solo la Shoah o i pogrom nell’Europa dell’Est e nella Russia zarista. C’è anche qualcosa di molto più recente e intimamente legato alla strage di Hamas: la cacciata degli ebrei dai paesi arabi dopo violenti moti di piazza. Il 5 giugno 1967 a Tripoli, in Libia, Yoram Ortona è un ragazzino di 13 anni che sta sostenendo l’esame di terza media alla scuola italiana, la Dante Alighieri (dalla quale suo padre era stato cacciato nel 1938 per le Leggi razziali). “Le strade erano affollate di arabi che gridavano ‘Morte a Israele! Morte agli ebrei’ – racconta -. Sabato mattina, 7 ottobre 2023, stavo andando al tempio. Mia figlia che vive in Israele mi ha mandato un WhatsApp e così ci siamo subito informati di che cosa fosse successo; è stato un trauma fortissimo, perché era impensabile che tanti terroristi potessero essere entrati in Israele, casa per casa, attuare una strage di inermi, gente che lavorava insieme ai palestinesi, insieme raccoglievano i frutti della terra. Per me che oggi ho settant’anni è stato tornare al 5 giugno 1967, le stesse urla rimbombate nei kibbutz ‘morte a Israele! Morte agli ebrei’… lì dove sono stati uccisi, decapitati, amputati, donne, uomini, bambini, anziani, malati. E le stesse grida si sono sentite nelle manifestazioni pro Palestina a Milano. Questo mi fa rabbrividire, fa male a chiunque abbia vissuto e sentito i racconti dei pogrom avvenuti nei paesi arabi; il primo che mio padre subì a Tripoli accadde nel 1945, con l’eccidio di oltre 150 ebrei, con decapitazioni, mutilazioni… le modalità sono sempre le stesse e questo trauma, per chi conosce bene la storia, mi fa riflettere e mi rende ancora più sicuro, forte della mia identità. Ho avuto la fortuna di reagire al trauma attraverso la scrittura, la testimonianza, il racconto. Occorre essere attivi, essere ‘comunità’, stringersi insieme e agire insieme, condividere opinioni e sentimenti. È l’unico modo per riuscire ad affrontare il cataclisma che ci ha investiti. E credo che sia arrivato il momento anche di ripensare il Giorno della Memoria, perché il 27 gennaio dovremmo ricordare il 7 ottobre, altrimenti ripetere ‘mai più’ sarebbe un modo irreale e superficiale di ricordare. Chiedo a tutte le Associazioni ebraiche di riflettere su questo”.

 

 

La neuro scienziata Talma Hendler: «Qualcosa è cambiato nel nostro cervello»

«Dopo la tragedia di ottobre qualcosa rischia di modificarsi nel nostro cervello e dobiamo tenerne conto». Così parla la neuroscienziata Talma Hendler dell’ospedale Ichilov, docente di psicotraumatologia all’università di Tel Aviv in una intervista uscita su JForum e su Times of Israel: i nostri sistemi cerebrali si sregolano sotto l’effetto di uno stress estremo ed è molto importante fare di tutto per riportarli in equilibrio, afferma. I traumi causati dall’esposizione a eventi feroci e efferati ci sottopone a cambiamenti strutturali del cervello umano. Col rischio di alterare l’equilibrio collettivo, specie nelle persone più fragili. È la prima volta che gli israeliani si sentono così indifesi e non protetti. Che cosa accade allora nel cervello? Che risposta ci forniscono le neuroscienze? Per Talma Hendler lo stress acuto di cui soffrono oggi israeliani (e molti che hanno famigliari e amici in Israele o esposti ad ambienti ostili o all’antisemitismo in Diaspora), è causato dall’iperattivazione di una piccola regione del cervello, l’amigdala, associata al sistema limbico che abitualmente gestisce le emozioni e la memoria. Una iperattivazione che genera una specie di nebbia nel nostro cervello, mancanza di motivazione, incapacità a concentrarsi con la conseguente messa in pausa delle attività abituali e della vita sociale. Disturbi del sonno, ipersensibilità, astenia, senso di vuoto, di ansia, collera o crisi di pianto. «L’amigdala viene coinvolta poiché deve reclutare tutti i meccanismi di sopravvivenza per superare la minaccia messa in moto dal trauma e dallo stress», spiega Hendler. Una iper attivazione del sistema limbico che può risultare pericolosa se a lungo termine non riesce a tornare al livello omeostatico pre-trauma. Fortunatamente l’80-90 per cento delle persone, col tempo, riescono a superare l’iperattivazione dell’amigdala senza sviluppare patologie da stress post-traumatico.
Ci sono delle utili tecniche di rilassamento e di biofeedback, oltre a diversi altri metodi cognitivi, per regolare al ribasso il sistema limbico, ovvero attivare quello che Hendler chiama il sistema mesolimbico, altrimenti detto sistema di ricompensa: si tratta di reagire con il fare, costringersi a essere attivi e fissare degli obiettivi pratici nell’immediato. Ridurre l’attività dell’amigdala implica un impegno, uscire dal traumatismo dipende certamente dalle nostre risorse interiori, tuttavia, il fatto di attivarsi per aiutare gli altri risulta essere tra le vie più praticate per controllare i sentimenti di panico e disperazione. Il mantenimento e ripristino del sistema di ricompensa è altrettanto importante della capacità di ridurre il sistema di minaccia, sottolinea Hendler. «L’equilibrio tra i due sistemi è essenziale per attivare la resilienza. È importante capire che la resilienza è un processo molto attivo, noi non siamo resilienti in modo innato, bisogna lavorarci sopra come facciamo per i muscoli del nostro corpo. Restare in buona salute fisica e psichica, malgrado le avversità, è un lavoro, un impegno. Bisogna agire con decisione per impedire che il sistema di minaccia del nostro cervello non prenda il sopravvento generando il TSPT, la sindrome da stress post-traumatico. Va pertanto stoppato il meccanismo di ciò che attiva lo stress.
Impedire che il senso di minaccia potenziale generato dal trauma resti scolpito nel cervello e che invece di essere trasformata in ricordo, doloroso sì ma ricordo, resta lì in agguato, attivo e vigile, pronto a sabotarci. Pertanto, Hendler ha messo a punto l’utilizzo di una tecnologia, Prism, un dispositivo, messo sul mercato quest’anno da Gray Matters Health, un software che funziona in tandem con un casco dotato di elettrodi particolari indossato dal paziente e in grado di regolare e modulare l’attività cerebrale. «Si tratta di attivare un allenamento cerebrale, un sistema per modificare plasticamente le reazioni del cervello che si producono dopo un evento o uno stimolo che ci riporta al momento del trauma. L’obiettivo è quello di non restare bloccati in uno stato di allerta o iper eccitamento, cosa molto negativa per il cervello». (Fiona Diwan)