perosne davanti al congresso con bandiere americane e israeliane

Cosa cambia per Israele con il ritorno di Trump

Mondo

di Nathan Greppi
Il risultato delle elezioni americane del 5 novembre ha aperto diversi possibili scenari su come cambierà l’atteggiamento di Washington nei confronti di Israele e della guerra in corso quando, il 20 gennaio 2025, Donald Trump rientrerà alla Casa Bianca. In molti pensano che sosterrà le decisioni del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu molto più di quanto non facesse Joe Biden.

Tuttavia, non mancano gli episodi che fanno pensare ad una rotta diversa rispetto al suo primo mandato; ad esempio, il fatto che personaggi fortemente filoisraeliani come Mike Pompeo e Nikki Haley non faranno parte del nuovo governo. In compenso, la scelta per l’Ambasciatrice americana all’ONU è caduta su una figura altrettanto vicina a Israele, la deputata Elise Stefanik, nota per aver condotto nel dicembre 2023 l’interrogazione sull’antisemitismo nelle università della Ivy League.

Giudizi su Biden

Ruthie Blum

Sull’operato del presidente uscente in merito alla guerra in corso tra Israele da una parte e Hamas e Hezbollah dall’altra, “l’opinione pubblica israeliana è divisa”, spiega a Mosaico la giornalista israeliana Ruthie Blum, nata a New York e che in passato ha lavorato come consigliere nell’ufficio del Primo Ministro Netanyahu. “All’inizio della guerra, molti israeliani erano convinti che Biden fosse sincero nel sostenerli dopo il 7 ottobre. Ma prima ancora che Israele iniziasse l’operazione di terra a Gaza, il Dipartimento di Stato americano aveva già cercato di scoraggiarli dall’entrare nella Striscia”.

Questo posizionamento, secondo la Blum, non ha stupito gli israeliani, in quanto “nel corso degli anni, il Partito Democratico si è spostato sempre più a sinistra, ed è diventato sempre più critico nei confronti d’Israele. E questa amministrazione, in particolare, si è rivelata una copia dell’Amministrazione Obama”, che aveva pessimi rapporti con Netanyahu.

La reazione dei paesi arabi

Israele non è l’unico Stato del Medio Oriente ad aver seguito le elezioni americane con il fiato sospeso: anche i paesi arabi hanno i loro interessi da difendere, che possono risentire positivamente o negativamente della politica estera statunitense.

“Trump è più rispettato nel mondo arabo che nell’Europa occidentale”, spiega a Mosaico l’ex-diplomatico americano Alberto Miguel Fernandez, con una lunga esperienza di lavoro nelle ambasciate USA nei paesi islamici e oggi vicepresidente del MEMRI (Middle East Media Research Institute). “È visto come una figura forte e nazionalista, una visione del mondo che gli arabi comprendono, riconoscono e più o meno rispettano. Essere nazionalisti non è visto in modo negativo nella regione. Egli è anche percepito come un politico pragmatico, il che è un sollievo per molti se paragonato a pericolosi ideologi come George W. Bush, che invadono e distruggono le nazioni”.

Fernandez aggiunge che “molti arabi musulmani sunniti, che sono la maggioranza della popolazione nella regione, hanno anche apprezzato il fatto che Trump abbia eliminato una figura come il generale iraniano Qassem Soleimani, visto come un famigerato macellaio che ha fatto strage di arabi sunniti in Siria e altrove. Distribuivano dolci per le strade quando “Abu Ivanka” (padre di Ivanka in arabo) ha fatto fuori Soleimani. Gli occidentali vedono solo cose come il “Muslim Ban”, e pensano che danneggi il rapporto di Trump con i musulmani: tuttavia, gli stessi paesi musulmani controllano rigorosamente l’immigrazione e chi può diventare un loro cittadino”.

Ebrei americani e israeliani a confronto

Nonostante Trump abbia sottratto ai democratici numerosi voti tra le minoranze, e in particolare tra i neri e i latinos, tra gli ebrei americani le cose sono andate diversamente: secondo la NBC, il 78% degli elettori ebrei ha votato per la Harris. Ma se a livello nazionale gli ebrei americani sono rimasti ancorati al Partito Democratico, a New York le cose sono andate diversamente: qui, circa il 45% dell’elettorato ebraico ha votato Trump, mentre nel 2020 aveva preso solo il 30% tra gli ebrei newyorkesi.

Se durante le elezioni gli ebrei americani erano in larga parte schierati contro Trump, tra gli ebrei israeliani invece il 72% riteneva che Trump fosse il candidato migliore per Israele, secondo un sondaggio dell’Israel Democracy Institute (salendo al 90% tra i giovani nella fascia d’età 18-34 anni). Solo l’11% degli ebrei israeliani pensava che la Harris fosse l’opzione migliore per Israele.

La ragione di questa divergenza è dovuta al fatto che “gli ebrei americani sono tradizionalmente democratici”, spiega Ruthie Blum. “Sono rimasti fermi ai tempi in cui il Partito Democratico era il più accogliente nei confronti degli ebrei, mentre i repubblicani erano il partito dell’alta società WASP (White Anglo-Saxon Protestant). Ma tutto questo è cambiato molto tempo fa: oggi il Partito Repubblicano rappresenta la classe operaia, mentre i democratici sono il partito delle élite”.

Ha aggiunto che gli Stati Uniti non sono più quelli di una volta: “Crescendo in America, non ho mai subito antisemitismo. Ma dopo il 7 ottobre è esploso, il che ha scosso molti ebrei. Ma anche se sono rimasti scossi da questi rigurgiti di antisemitismo a sinistra, molti di loro hanno scelto di non votare comunque Trump, e il giorno delle elezioni hanno preferito non andare a votare e restare a casa”. In compenso, se tra gli ebrei ortodossi il voto repubblicano è superiore alla media, secondo la Blum ciò non è dovuto solo al fatto che sono più conservatori: “Gli ebrei non praticanti in America non sono facilmente riconoscibili. Mentre gli ortodossi, con i cappelli neri, le kippot e le peot, sono più facili da riconoscere, e questo li rende anche più esposti ad aggressioni fisiche per le strade”.

Secondo lei un altro motivo riguarda il fatto che, mentre gli israeliani devono sempre fare il servizio militare perché storicamente circondati da nemici, gli ebrei americani invece tendono ad essere molto più pacifisti: “Anche quando l’America era in guerra, ad esempio in Vietnam, la maggior parte degli ebrei cercò di evitare l’arruolamento, ad esempio andando all’università. Gli ebrei che vivono in Israele, invece, non possono permettersi questo lusso”.

La comunità araba negli Stati Uniti

Un altro fenomeno da prendere in considerazione è la comunità araba americana, che soprattutto in Michigan ha scelto di penalizzare Biden e la Harris per via del loro operato relativo a Israele e a Gaza: per fare un esempio, nella città di Dearborn, situata in Michigan e che ospita una delle più grandi comunità arabe negli Stati Uniti, la Harris ha preso solo il 36% dei voti. Una fetta consistente di quelli che ha perso è andata alla candidata presidente del Partito Verde Jill Stein, ferocemente antisionista e che a Dearborn ha preso il 18% dei voti, quando a livello nazionale ha preso solo lo 0,4%.

Secondo Alberto Fernandez, gli elettori arabi e musulmani “vedono la Harris, e più in generale l’Amministrazione Biden-Harris, come se avesse le mani sporche di sangue, dato il bilancio delle vittime a Gaza e in Medio Oriente. I democratici hanno trovato un modo creativo per far arrabbiare sia gli ebrei che gli arabi. Trump ha ottenuto tra le comunità musulmane e arabe del Michigan un consenso senza precedenti, ma anche a livello nazionale si è presentato come il candidato della pace. Qualcosa che molti americani, almeno in queste elezioni, hanno giudicato positivamente”.

Le prospettive con Trump

Alla luce di tutti questi fattori, occorre chiedersi cosa accadrà quando Trump tornerà ad essere presidente: le sue politiche saranno le stesse del periodo 2017-2021? O ci saranno delle differenze?

A questo proposito, la Blum fa notare che il tycoon “è circondato da certe figure, come il conduttore Tucker Carlson, che sono fortemente isolazioniste. E lo stesso Trump ha detto chiaramente ‘Io pongo fine alle guerre, non le comincio’. Questo rende nervose molte persone, le quali temono che Trump non permetterà ad Israele di vincere la guerra. Ma mentre Biden ha continuato a parlare di cessate il fuoco, Trump ha detto che Israele deve finire in fretta la guerra, ma nel senso che deve vincerla in fretta. E non è la stessa cosa”.

Anche Fernandez è più o meno dello stesso avviso: “Trump sarà prevedibilmente un forte sostenitore di Israele, e non limiterà la vendita di armi a Gerusalemme. In generale, sarà molto più favorevole a Israele di quanto non lo fosse Biden. Ma anche se è contro il regime di Teheran, non vuole vedere gli Stati Uniti venire coinvolti in avventure militari all’estero, nemmeno per sostenere Israele. Quindi sarà politicamente contro il regime iraniano, e probabilmente aumenterà le sanzioni contro l’Iran allo stesso livello di quelle imposte durante la sua prima amministrazione, ma al tempo stesso traccerà una linea per evitare un coinvolgimento in qualsiasi conflitto diretto con l’Iran”.

 

(Foto: Politico.com)