Fermare il pericolo con la forza della parola è stato il tema conduttore della giornata di riflessione e dibattito che lAssociazione Pier Lombardo e lAssociazione amici del Museo dArte di Tel Aviv hanno organizzato al Teatro Dal Verme. L’incontro ha visto la partecipazione, fra gli altri, di Piero Fassino, Silvio Orlando che legge David Grossman, Ferruccio De Bortoli, Piero Ostellino, Giulio Anselmi, Haim Baharier, Fiamma Nirenstein.
Lidea è nata dal monito, lanciato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione della celebrazione del Giorno della Memoria, che invitava a combattere ogni rigurgito di antisemitismo, anche quando esso si travesta da antisionismo: perché antisionismo significa negazione della fonte ispiratrice dello Stato ebraico, delle ragioni della sua nascita, ieri, e della sua sicurezza, oggi, al di là dei governi che si alternano nella guida di Israele”.
Di fronte a questo monito, un gruppo di persone attive nel mondo culturale si è posto una domanda: Che cosa può fare la cultura per contrastare le crescenti minacce iraniane, per combattere la sistematica negazione della Shoah e il diritto dello Stato d’Israele a esistere? Cosa può fare la cultura per ridare un senso alle parole, per dare il giusto peso e in tal senso perseguire chi a parole perpetra minacce?.
Ecco il testo dellintervento che Ugo Volli, semiologo, critico e scrittore, ha dedicato alla giornata.
Questo incontro nasce da una giusta intuizione di Andrée Shammah: è urgente ragionare oggi e della debolezza della parola nella nostra società, del modo e delle ragioni per cui le parole della politica e del giornalismo, ma anche spesso dell’arte e della filosofia hanno perso peso e importanza. La forza della parola viene dalla sua capacità di proclamare la verità (quella che a ciascuno onestamente pare sia la verità). Solo sulla base della capacità di dire la verità è possibile interpellare il mondo, combattere le ingiustizie, chiedere a chi decide di dare ragione di sé e delle sue scelte.
Prima che potere della maggioranza, la democrazia è responsabilità di chi governa. Responsabilità, cioè obbligo di rispondere, di non sottrarsi al discorso. Responsabilità e cioè confronto fra le parole e gli atti. Responsabilità, e cioè trasparenza della parola.
Non è certo nostra intenzione intentare qui un processo alla politica. Essa è da sempre fatta di molteplici punti di vista parziali (legittimamente parziali) che cercano di farsi progetto universale e devono quindi scontrarsi fra loro (in maniera pacifica) ma in seguito hanno bisogno di accordarsi per operare insieme e poi però devono scontrarsi di nuovo e così per sempre; il terreno naturale di questi conflitti in democrazia è la conquista del consenso più largo. La politica non può dunque che vivere in una dimensione retorica del discorso, dove è necessaria la persuasione da un lato e il compromesso dall’altro.
Non ce ne scandalizziamo. L’esistenza di una logica propria della politica, distinta e autonoma rispetto alle altre, è una conquista della modernità, uno dei fondamenti dell’Occidente laico come lo conosciamo. Sappiamo però che c’è bisogno nel corpo sociale di un contrappeso, di qualcuno che dica la verità senza badare alle conseguenze. A partire dall’illuminismo ha assegnato questo compito a una categoria specializzata di lavoratori, che ha chiamato stranamente intellettuali. E’ un lavoro difficile, che eredita il compito dei profeti della Bibbia (i quali avevano il vantaggio di sentire l’ispirazione divina) e della missione che Socrate attribuiva alla filosofia: fare come i tafani, che volano dappertutto e pungono tutti, portando inquietudine e domande. Non rinunciare a questa funzione, a dire le verità che si sono viste, anche a costo di dar fastidio alla propria parte politica e di restare da soli a bere la cicuta. Così dovrebbero fare gli intellettuali, se esistessero ancora.
Questa funzione è invece profondamente deperita. Non solo perché è ormai quasi completamente estinta la generazione dei maîtres-à-penser, i maestri che si prendevano il rischio di porsi come coscienza morale dell’Europa. Ma soprattutto per la condizione concreta del lavoro intellettuale oggi. Universitari, scrittori, editori, artisti: gli intellettuali sono legittimati oggi soprattutto dai mezzi di comunicazione e ne accettano la logica. E i media, i giornali innanzitutto, sono usati come strumenti di propaganda o di intrattenimento. Gli intellettuali dunque fanno quasi solo più gli enterteiner o i propagandisti. Dunque fanno mostra di appartenere a una parte, di lottare in suo favore, e non certo di testimonianza personale. La critica è arma di parte.
Nei giornali essi poi figurano collettivamente, come voci del coro. Non insegnano, polemizzano o giocano, sono “schierati” e dunque non rispondono di quel che dicono, non hanno un ruolo individuale. Di conseguenza non credono più alla capacità delle parole di agire. Da questo punto di vista, la pratica dell’eufemismo politico e quella dell’urlo giornalistico sono due facce dello stesso problema. In entrambi i casi non si crede più al peso delle parole, non si pensa di fare quel che si dice e di dire quel che si fa. La parola è chiacchiericcio irresponsabile fino all’urlo, come nei talk show televisivi; o allusione, cauta esplorazione di ambiguità accettabili da tutti. Oppure ancora è silenzio, il silenzio che per esempio corrisponde (non risponde, ma tollera) le parole di morte del presidente iraniano. I discorsi ignorano i problemi brucianti, le contraddizioni. Per esempio rinunciano a difendere l’autonomia e perfino l’incolumità delle donne immigrate, per non violare il politically correct sull’immigrazione.
Questa situazione è profondamente patologica. Noi come cittadini responsabili abbiamo bisogno di scegliere fra proposte chiare, impegni espliciti. E come intellettuali abbiamo il dovere di dire quel che vediamo. Minimizzare ciò che insidia la nostra analisi, negare che sia in corso un tentativo di distruggere di nuovo Israele e in prospettiva tutto il nostro mondo, minimizzare la violenza che assale le donne immigrate, sperare che chi ci considera nemici si accontenti di qualche parola di buona volontà è follia. Perché, come ha detto qualcuno, i fatti sono ostinati. E anche le persone, se hanno chiaro chi sono e cosa vogliono. Lo dimostra proprio Ahmadinejad, il presidente iraniano che dovrebbe essere già stato sepolto sotto il suo estremismo, secondo la logica dei nostri teorici dell’eufemismo e dell’autocensura dei discorsi. E invece è rafforzato dalla sua chiarezza consentitemi di dirlo per essere altrettanto chiaro dalla chiarezza del suo proposito genocida e criminale.
Io parlo e voi esercitate la virtù dell’ascolto. Il poeta, lo storico, il filosofo, l’attore parlano e noi pensiamo e sentiamo con loro. La politica parla e noi tutti l’ascoltiamo e poi votiamo. Il commerciante parla e sulla base della sua parola noi compriamo Tutto questo, tutta la società e la cultura, hanno senso solo a condizione che prendiamo sul serio le parole. Chi falsifica le parole è peggio di un falsario di moneta. Il misologo, il nemico del discorso, come lo chiamava Platone, odia l’umanità e la convivenza degli uomini.
Dobbiamo prendere sul serio le parole di tutti. Per rispetto di quelli che esprimono buone intenzioni (anche se siamo continuamente invitati dai media a non crederci, come nel caso delle dichiarazioni di Blair); per cautela nei confronti di quelli che pronunciano minacce. Hitler aveva scritto in Main Kampf ciò che avrebbe fatto; fu creduto dai suoi che lo appoggiarono, e non fu preso sul serio dai democratici, che credettero di fargli credito non credendogli: un paradosso che oggi si ripete con l’Iran, con Hamas, con Hezbollah, coi talebani. Rispettiamoli, crediamo a quel che dicono e comportiamoci di conseguenza. L’eufemismo è un’illusione anche dal punto di vista pragmatico. Nessun lupo si è mai ammansito sentendosi dire che in fondo è un bravo cagnolino.
Ma non dobbiamo accettare il ricatto dell’ideologia: quando qualcuno dà per scontato di essere il buono, l’oppresso, colui che vuole la pace, dobbiamo chiederci e chiedergli se è vero: misurare le sue parole con i fatti, valutare il suo modo di vivere e il nostro, guardare sempre come tratta le donne, i bambini, le altre religioni e culture.
Abbiamo bisogno innanzitutto di tornare noi stessi a credere nelle parole che pronunciamo, abbiamo bisogno di capire che solo i progetti chiari e l’onestà del discorso mobilitano le coscienze. Abbiamo bisogno di dire con chiarezza quali sono i valori che difendiamo e promuoviamo e chi sono coloro che li attaccano. Bisogna anche dire che non si può stare con tutte le parti contemporaneamente, che l'”equivicinanza” di cui si è parlato mesi fa è un’illusione o piuttosto un modo furbo di esprimersi, per dissimulare la propria posizione. Bisogna uscire dal silenzio, dall’ipocrisia, dall’autocensura.
La sfida di questo incontro è di applicare questa fiducia sulle parole o aggi, a qui, alla crisi maggiore che ci troviamo di fronte, quella del Medio Oriente. Per questo abbiamo chiesto a un eminente uomo politico come Fassino, noto per la sua onestà personale e anche intellettuale, di venire qui a rispondere delle sue posizioni, per esempio la proposta recente di una conferenza di pace coi talebani. Lo ringraziamo di aver accettato. Ma la domanda va a tutti voi, a tutti noi, a tutti gli italiani e gli europei: bisogna uscire dal silenzio e dire finalmente quel che si pensa. Anche se scopriremo di non essere d’accordo, avremo guadagnato in chiarezza e in onestà, saremo più vicini alla soluzione dei problemi.
Lo faccio io per primo e dico un’ultima cosa: io sono qui perché sto con Israele. Come dirà più tardi Fiamma Nirenstein, Israele è tutti noi, è il cuore scoperto della nostra civiltà. Io sono qui perché sto con la democrazie e i democratici. Io sono qui perché credo che la pace avvenga quando le armi tacciono da tutte le parti e non ci si odia più, non si indottrinano i bambini a odiare. Perché quando la pace è imposta da una parte sola, nel silenzio di una società ridotta a audience vale quel che scrisse Tacito: “hanno fatto il deserto e l’hanno chiamato pace”.
Ugo Volli