di Ilaria Ester Ramazzotti
ESKI MOSUL (IRAQ) – “Sono persone brutali. Ti possono considerare un infedele per le cose più semplici” ha detto Abdullah Bilal, un ragazzo iracheno, a proposito dell’Isis. The Times of Israel e Ynet News pubblicano questa settimana resoconti di esperienze di vita dentro il Califfato, storie di persone, oggi liberate, che descrivono una realtà di paura, di morte e di stretto controllo sotto il dominio dell’estremismo islamico. Il quadro che dipingono mostra come il Califfato si sia evoluto in uno pseudo-stato integralista basato su una burocrazia del terrore.
Episodi, drammi e ricordi personali sono stati raccolti da The Associated Press, che ha intervistato più di venti persone irachene e siriane in Turchia e in Iraq. Le interviste sono state fatte a Gaziantep e Sanliurfa, due città lungo la frontiera turca e luoghi di rifugio per siriani fuggiti dal Califfato, e anche a Eski Mosul, un villaggio sul fiume Tigri a nord di Mosul, dove i residenti sono stati liberati lo scorso gennaio dai curdi che hanno cacciato i miliziani dell’Isis.
Vediamo alcune di queste storie, a partire da uno dei loro elementi chiave e oggetti simbolo: la ‘carta di pentimento’. Dentro i territori dell’Isis, possedere oppure no il documento che certifica il ravvedimento dal proprio passato ‘eretico’ può significare la vita o la morte. Si tratta di un salvifico pezzo di carta rilasciato dal Califfato che ogni musulmano ‘ravveduto’ deve sempre portare con sé. Abdullah lo ha imparato una sera di un anno fa nel suo villaggio in Iraq, Eski Mosul, quando un miliziano dello Stato islamico glielo aveva chiesto. Gli aveva prima domandato le indicazioni per raggiungere una vicina moschea, di cui però Abdullah non ricordava il nome. Così “mi ha detto che la mia fede era debole e mi chiesto se io pregassi”, ricorda. Abdullah faceva il poliziotto e, come tutti gli ex-dipendenti statali, nel regime dell’Isis doveva per forza averlo. Così come gli insegnanti di inglese, perché avevano insegnato una ‘lingua proibita’ secondo le leggi della Shariah, la legge islamica interpretata in senso radicale. E poi i sarti che avevano disegnato abiti da donna non conformi all’islam. Alla fine Abdullah, esterrefatto, aveva mandato il figlio a casa a prendere di corsa quel documento, simbolo e motivo della sua sopravvivenza dimenticato in un cassetto.
Dai cinque agli otto milioni di persone, riportano ancora Ynet News e The Times of Israel, hanno dovuto subire il regime del Califfato che si è esteso per tutta la Siria settentrionale e per gran parte del nord e dell’est dell’Iraq; un numero imprecisato di persone sono state uccise perché ritenute pericolose o non abbastanza pie. Un certificato di morte senza la causa o un video pubblicato sono spesso le uniche comunicazioni rilasciate dai miliziani su quelle morti.
Non esiste un modo sicuro per uscirne. “Le persone li odiano, ma sono disperate e non vedono nessuno pronto a sostenerle qualora si ribellassero”, ha detto un siriano di 28 anni che ha chiesto a Associated Press di essere citato solo con il soprannome che usa nell’attivismo politico, Adnan, al fine di proteggere la sua famiglia che vive ancora nei territori del Califfato, a Raqqa. Adnan ha descritto la trasformazione che la città siriana di Raqqa ha subito dopo che lo Stato islamico l’ha occupata nel gennaio del 2014. A quel tempo lui era scappato, poi è ritornato per raggiungere i suoi e per vedere se avesse potuto sopportare la vita sotto gli estremisti. Ma la cosmopolita città siriana era stata trasformata, ha riferito. Adesso le donne, coperte di nero dalla testa ai piedi, vanno di fretta al mercato per poi correre a casa. I combattenti dell’Isis hanno trasformato uno stadio da calcio in una prigione e centro per interrogatori, facendo della piazza centrale cittadina un luogo di esecuzioni capitali. Intanto, miliziani armati pattugliano le strade sfrecciando sui loro Suv con addosso pantaloni larghi e camicie in stile afgano. Adnan ha detto di sapere perché molte delle vittime nei video di esecuzione appaiono così calme. Provano delle frasi di rito e le “ripetono almeno venti volte così, quando quella vera arriva, il prigioniero pensa che sia solo un’altra finta esecuzione”.
Lo Stato islamico, raccontano gli intervistati, è un luogo dove gli uomini si profumano con l’acqua di colonia per nascondere l’odore di sigarette vietate, dove i tassisti e gli automobilisti ascoltano solo la stazione radio del regime, perché ascoltare musica proibita comporta dieci frustate per punizione. O, ancora, dove chi è accusato di omosessualità viene gettato a terra da un tetto o da un balcone. Le donne si devono coprire per intero e vestire di nero, con le scarpe basse. I negozi chiudono durante le ore della preghiera e tutti sono obbligati ad andarci.
Anche a Buthaina Ibrahim era stata richiesta la sua carta ‘di pentimento’. Lei era avvocato e difensore dei diritti umani. Una volta si era anche candidata per il consiglio provinciale di Mosul. Ma, anche per lei, il contesto dell’Isis rappresentava un serio pericolo. “Non mi sono mai sentita cadere così in basso”, aveva detto al marito Sheikh Abdullah Ibrahim. L’avevano fatta fuggire, ma lei è ritornata per le sue tre figlie e dei suoi due figli.
Tutti i resoconti e i ricordi personali ascoltati da The Associated Press, molti dei quali confermati da più persone e dal materiale che lo stesso Isis ha pubblicato sui social media, sono corredati da documentazioni, copie delle carte di pentimento, inventari di armi, opuscoli che illustrano le regole sul vestire e autorizzazioni scritte per far viaggiare delle donne. Il tutto decorato con la bandiera nera e il logo che riporta: “Califfato nel percorso del profeta”. Fra questi incartamenti c’è anche il certificato di morte di Buthaina Ibrahim, redatto senza la causa, un semplice foglio di carta inviato da un ‘tribunale islamico’ con la firma di un giudice. Dice solo che la morte di Buthaina è stata accertata, niente di più. Ibrahim, il marito, non ha idea di dove sia il corpo di sua moglie. Ma conserva quel foglio come se fosse un ultimo legame con lei. “Perché lì c’è il suo nome”.
Un ex soldato di Eski Mosul, Salim Ahmed, conserva invece gelosamente la sua carta di pentimento. “Viviamo molto vicino alla loro prima linea – ha detto-. Un giorno, potrebbero tornare e domandarmela di nuovo”. Per lui lo Stato islamico è stato scacciato, ma non il suo terrore.