di Claudio Vercelli
Poche considerazioni, ancora a caldo, sul confronto di Hamas contro Israele (di ciò si è trattato, non di altro), in queste settimane, ancora una volta difficili. Per meglio intenderci, articoleremo attraverso alcuni punti gli ordini di riflessione, ben sapendo che la discussione è a tutt’oggi aperta e che quindi, ciò che segue non può avere nessuna pretesa di esaustività
- da tempo gli analisti andavano rilevando che il fuoco stava ardendo sotto le ceneri; le vicende del Damascus Gate (le transenne che filtravano la ricongiunzione dei fedeli musulmani durante le sere del Ramadan) e di Sheikh Jarrad (il pronunciamento della Corte Suprema nel merito della destinazione d’uso e di abitabilità di alcuni appartamenti), a Gerusalemme, sono stati solo i pretesti occasionali rispetto a tensioni invece di lungo periodo, che hanno quindi prodotto una nuova fiammata, per più aspetti superiore a quella che si era registrata nel 2014;
- l’oggetto del tripudio di aggressioni da parte di Hamas nei confronti d’Israele non sono i diritti dei palestinesi, in quanto collettività nazionale, ma la leadership dell’organizzazione islamista rispetto sia a Gaza, dove altri movimenti fondamentalisti da tempo ne stanno insidiando la primazia, sia alla Cisgiordania, nella quale ciò che resta dell’Autorità palestinese – simulacro di un potere senza alcuna residua autorevolezza – sta completamente declinando, accartocciandosi indecorosamente su di sé;
- il fuoco del conflitto è quindi l’assenza di qualsiasi prassi negoziale, l’azzeramento delle opzioni politiche, la convinzione che si possa continuare a mantenere e reiterare un illusorio «status quo» rispetto al quale, però, nessuno sa offrire alternative credibili. Se Israele deve scegliere riguardo al futuro del West Bank, ciò che resta di una società palestinese fortemente frammentata e polarizzata al suo interno rimanda non tanto alle sue improbabili capacità contrattuali, bensì alla totale indeterminazione riguardo al proprio destino: comunità politica autonoma, con le responsabilità che però ne derivano, oppure soggetto vassallo di terzi, chiunque essi siano. I tempi supplementari si stanno definitivamente consumando. L’alternativa, per intenderci, è quella di sparire, assorbiti dalla sopravveniente irrilevanza: ancora una volta per parte dei palestinesi, per capirci. La qual cosa, con buona pace degli ingenui, non risolverebbe una volta per sempre lo storico contrasto ma sancirebbe la caduta nell’abisso di una delle controparti; storicamente, il problema non è mai l’avere un nemico ma il non sapere chi esso sia. Per inciso: non ci si guadagna nulla dall’annientare l’antagonista, non almeno in questo modo;
- non basta guardare al Medio Oriente e, specificamente, a quella piccola porzione di terra che comprende Israele e i Territori, per capire quale sia il vero quadrante dello scenario. Poiché ad essere chiamata in causa è adesso l’Amministrazione Biden, altrimenti piuttosto refrattaria ad impegnarsi nell’improbabile negoziazione di un confronto storico rispetto al quale non ritiene di potere ricavare alcun beneficio per se stessa. Peraltro, senza avere in ciò completamente torto, quanto meno dal suo punto di vista. In realtà, la «questione palestinese» costituisce uno dei campi prediletti ove saldare i radicalismi che allignano in una parte del Partito democratico americano (la cosiddetta «Squad», espressa, tra le altre, dalla figura di Alexandria Ocasio-Cortez) con l’ampio e variegato movimento del Black Lives Matter e di tutti quei gruppi che occupano la scena politica statunitense dell’oggi. Non si tratta, ancora una volta per capirci fino in fondo, di formulare un giudizio sui diversi protagonisti in campo, bensì di comprendere quali siano le effettive dinamiche di scenario che intervengono nei processi politici, anche e soprattutto mediterranei. Si ha che fare, come sempre, con vicende non solo complesse ma anche composite. Che Hamas (e con esso, al medesimo tempo, Hezbollah) costituisca un movimento terrorista, nulla toglie al fatto che anche i peggiori criminali della storia abbiano comunque una qualche capacità di influenzare politicamente le altrui sensibilità, quanto meno in misura indiretta (altrimenti sarebbero destinati a sparire molto velocemente; abbiamo capito già da tempo che, invece, così non è, né sarà mai);
- l’intera vicenda vede di nuovo in campo protagonisti dichiarati e burattinai nascosti: il ruolo dell’Iran è, da questo punto di vista, inquietante. Da diverso tempo, infatti, ha superato le soglie di distinzione tra sciiti e sunniti, impegnandosi a sostenere Hamas nella prospettiva di capitalizzare un ruolo di rappresentanza del mutevole universo islamista. In un tale gioco entra in conto non solo la prospettiva di godere di una funzione egemone ma anche di puntellare il proprio ruolo rispetto alle aggrovigliate dinamiche dei diversi gruppi radicali, la cui forza sta nella movimentazione continua e nella destabilizzazione dei poteri costituiti, anche di quelli di matrice musulmana. In altre parole, se Teheran non si muove, e non usa gli strumenti che ha a sua disposizione, nella cinica disposizione delle diverse strategie competitive contro le altre organizzazioni islamiste, potrebbe trovarsi un giorno a pagare la sua “debolezza”. In questo quadro, la vicenda palestinese è un mero pretesto rispetto a calcoli di ben altra natura. Rimane il fatto che essa è un catalizzatore e un fattore galvanizzante nella mobilitazione della pubblica opinione arabo-musulmana;
- si può stare certi che le strategie di delegittimazione d’Israele giocheranno, nei tempi a venire, su un asse che cercherà di legare i vecchi criteri di destabilizzazione («abusivismo storico», innaturalità e «artificiosità» dello Stato ebraico su una terra invece da sempre “palestinese”) a quelle di nuova formulazione: il maniacale riferimento all’«asimmetria» e alle «sproporzioni»; il rimando alle strategie di «apartheid»; il ritorno dell’accusa, storicamente destituita di qualsivoglia fondamento, rivolta allo Stato d’Israele, di costituire un’impresa di ordine «coloniale». Soprattutto, la generazione di una mitografia sul «genocidio» dei palestinesi. Si stia certi che su questi temi, ed altri ancora, suoneranno le trombe e la grancassa della propaganda per i prossimi anni;
- ciò che si è visto in queste settimane di scontro militare, non è il disegno di due determinazioni politiche ma la somma di due intrinseche debolezze, quand’anche di segno morale, valore etico, proporzioni materiali e significati civili tra di loro molto differenti: Israele ha difeso se stessa dinanzi all’aggressione ma non ha una proposta politica rispetto al futuro definitivo dei Territori; il frammentato “fronte” palestinese, a sua volta, è unito da una sola ragione, quella di reiterare il rifiuto dell’«entità sionista». Come tale, quest’ultimo si aggrappa ad un simulacro di azione, dal quale comunque trae temporaneo beneficio: non ha ad obiettivo il tutelare i “palestinesi” ma l’avvalorare le proprie credenziali di attore politico nello scenario regionale del Medio Oriente. Non ci si dimentichi che, in quella regione, tra quanti dicono di lottare per le libertà di una collettività, spesso i più sono invece motivati da altre ragioni, a partire dalla volontà di distruggere il già esistente;
- esiste tuttavia in Israele un problema di coesione sociale: i riots degli arabi-israeliani, soprattutto nelle città miste, non possono essere ricondotti solo all’abituale prassi ribellistica di alcune componenti della società nazionale nei momenti di maggiore tensione. Non sono infatti la prevedibile ripetizione di condotte già manifestatesi, come nel caso della prima Intifada (1987) e della seconda (2000), bensì il segno di una ben più diffusa difficoltà, quella di tenere insieme il pluralismo della società israeliana dinanzi alla sfida del mutamento in corso, che rimanda non esclusivamente alle identità culturali precostituite bensì ai molteplici differenziali sociali ed economici che nel frattempo sono andati affermandosi e stratificandosi. Per capirci: non ci si ribella solo poiché ci si sente “etnicamente diversi” (noi arabi, voi ebrei), e come tali inconciliabili rispetto al resto della società, bensì perché ci si avverte come impossibilitati ad essere “uguali”, ossia a godere di pieni diritti e pari opportunità in quanto israeliani, sia pure di origini differenti. Israele vive, del suo, l’affaticamento tipico delle democrazie a sviluppo avanzato, dove l’integrazione tra comunità diverse risulta sempre più oneroso;
- il quadro politico, non solo regionale, da tempo è segnato da processi di radicalizzazione: la crisi della politica sta pesando enormemente in tale senso, condizionando le condotte dei diversi protagonisti. Più in generale, ciò che ne deriva è lo spostamento dell’asse degli equilibri politici interni – tra tutti i protagonisti – verso condotte e atteggiamenti sempre meno propensi a cercare uno spazio di negoziazione. L’identitarismo – ossia la contrapposizione di principio verso chiunque non aderisca immediatamente ad un calco ideologico e culturale preformato – è la malattia senile dell’identità, decretando che quest’ultima sia non un’opportunità bensì un vincolo assolutistico, dentro il quale fare morire ogni manifestazione di pluralismo. L’identitarismo è parte del totalitarismo fondamentalista. Non importa quale sia il segno o il connotato politico e culturale che assume. Poiché sempre e comunque mina le radici della cittadinanza;
- se la fiammata conflittuale da poco esauritasi si è manifestata anche per il tramite del manifestarsi di tifoserie esasperate, quasi che fosse in corso un confronto agonistico e non un episodio bellico, è non meno vero che ancora una volta si è assistita alla recita dell’accusa di “tradimento” rivolta a chiunque non si sia allineato a rigide posizioni precostituite. Questa dinamica, vecchia come le guerre stesse che vengono combattute, è parte stessa del ripetersi del conflitto in quanto contrapposizione insindacabile. Nel momento medesimo in cui, ipocritamente, si dice invece di propendere per una qualche negoziazione. Si tratta di un vecchio e demenziale meccanismo, che svuota non l’avversario ma il proprio gruppo, impoverendolo di forza e risorse. Come tale, rischia di divenire, passo dopo passo, la tomba di ogni prospettiva futura. Per se stessi, prima ancora che per gli altri. Al netto degli autoinganni.