Diverso da chi?

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Un sondaggio promosso dal Bené Berith. Indagine sui giudizi e pregiudizi dei giovani della scuola ebraica verso gli stranieri, i diversi, gli immigrati extracomunitari. Ne emerge una fotografia non dissimile da quella degli altri adolescenti italiani: zero ascolto, poca disponibilità e compassione. Eppure, per l’ebraismo, lo straniero è sacro…

Chi è il diverso da noi? Che cos’è lo straniero, l’altro, l’immigrato, per i giovani della Comunità? Le risposte fornite dai ragazzi della Scuola ebraica (14-18 anni), nei 137 questionari volti a monitorare il loro rapporto con gli stranieri, hanno offerto importanti spunti di riflessione a pubblico e ospiti di un recente dibattito, relatori Jojo Bali del Bené Berith, Rav Alfonso Arbib, Betty Guetta, Stefano Morando, Stefano Levi Della Torre. I risultati dell’indagine sono stati presentati durante la serata organizzata dal Bené Berith (con la collaborazione del CDEC), che ha inteso così tastare il polso al pregiudizio e al clima generale verso gli immigrati tra i ragazzi della Comunità milanese. L’interessante sondaggio fa parte del Progetto Bené Berith 2010, dedicato al tema del diverso e che prevede altri futuri appuntamenti nonché un Concorso per tutti i giovani studenti iscritti alla Comunità sul tema “Il diverso da sé” (scadenza per la presentazione dei lavori 15 marzo 2010).

Ma veniamo al sondaggio. “Gli adolescenti della nostra scuola media superiore – ha affermato la sociologa Betty Guetta che ha elaborato i risultati – non hanno espresso opinioni molto differenti da quelle dei loro stessi coetanei non ebrei. Ricordiamoci che questi ragazzi saranno presto chiamati a essere i cittadini di una società multietnica e multireligiosa. È quindi interessante osservare alcune percentuali emerse, soprattutto alla luce del fatto che circa 6 su 10 degli intervistati sono stranieri essi stessi, figli di stranieri o, comunque, appartenenti a famiglie ebraiche che hanno alle spalle una storia di esilio e emigrazione (persiani, libanesi, turchi, libici, egiziani, polacchi…). Circa il 77 per cento degli intervistati ha dichiarato che ci sono troppi immigrati nella nostra città, mentre il 65 per cento dei ragazzi, proprio per questa ragione, percepisce Milano meno sicura. Soltanto una percentuale esigua di studenti della scuola ebraica considera i migranti una fonte di arricchimento della società, mentre un 26 per cento ritiene che gli stranieri sottraggano lavoro agli italiani. Le risposte portano alla luce un atteggiamento difensivo che, non di rado, sfocia nella preoccupazione, nella diffidenza e nell’insicurezza legata alla presenza dello straniero. Figli di una società patchwork, questi ragazzi hanno la consapevolezza di vivere in un mondo discriminante. E lo fanno proprio”. Risultati analoghi questi a quelli presentati da Eurisko in un sondaggio su un campione significativo di popolazione di studenti italiani, sondaggio presentato lo scorso gennaio: qui Eurisko evidenziava come il 57 per cento dei ragazzi italiani viva lo straniero come minaccia (un minor pregiudizio è stato rilevato tra studenti dei licei classici).

Mantenere le distanze
Insomma, poco ascolto, zero compassione, nessuna accoglienza o disponibilità. “Il diverso è lontano e non lo vogliono vicino. Se poi per i soggetti maschili la cosa si traduce in disagio, nelle femmine invece suscita un sentimento di paura. Dai dati emerge che c’è poca disponibilità a comprendere e, soprattutto, a conoscere l’altro, percepito come distante, non ben identificabile e, per questo motivo, assimilabile alla negativa opinione comune”, aggiunge Guetta. Secondo il parere della sociologa, il pregiudizio espresso dai ragazzi nei confronti di chi è diverso dimostra un’adesione allo stereotipo condiviso dalla società circostante e espresso con forza dai mezzi di comunicazione. “La generalizzazione del diverso (rumeno, cinese, albanese, senegalese, rom…) – ha continuato Guetta -, la cancellazione di nomi, volti e storie personali è la risposta che, troppo spesso, la nostra società ha dato e continua a dare a questo fenomeno. Gli adulti, la famiglia, la scuola e gli ambienti educativi devono insegnare ai giovani a distinguere le persone e a non cadere vittima di comode conclusioni”. Le quali, basta un attimo, e si trasformano in vieto pregiudizio (rumeni-stupratori, albanesi-ladri, cinesi-sporchi, zingari-rapitori-di-bambini…, e giù a colpi di clichè).

Sulla propria pelle
Attenzione, quindi: come diceva il filosofo Emmanuel Lèvinas, dietro ogni giudizio si nasconde un pregiudizio.
Il sondaggio mette in evidenza ancora che il 60 per cento dei ragazzi della nostra scuola frequenta solo coetanei ebrei contro un 35 per cento che ha amici anche fuori. Incrociando le risposte emerge dai dati che il pregiudizio è più forte laddove si è più chiusi e si ha meno contatti con l’esterno, chiusura che giocoforza finisce per generare una visione stereotipata degli altri. E per la maggioranza dei ragazzi italiani ahimè, sembra non esistere più l’idea dello straniero ma solo quella dell’extracomunitario. Un primo passo per smontare questa percezione è stato fatto nell’incontro avuto da una trentina di ragazzi del biennio della Scuola Ebraica con gli educatori della Onlus “Oltre il Ponte” che, da tempo, si occupa di divulgare il valore della diversità fra i giovani e adulti. “Abbiamo utilizzato – ha affermato Stefano Morando, responsabile della Onlus – una metodologia interattiva, in grado di coinvolgere i ragazzi e di far loro vivere in prima persona l’esperienza dell’esclusione e della diversità. Dopo avere proiettato un filmato che mostra le reazioni alla discriminazione vissuta sulla propria pelle da adulti e bambini, abbiamo chiesto agli studenti se fossero mai stati vittime o promotori di un’esclusione. La maggioranza dei ragazzi ha dichiarato di avere subito, in più di un’occasione, discriminazioni verbali razziste; solo un paio di essi hanno affermato di avere, talvolta, assunto atteggiamenti discriminatori verso gli arabi.

Queste risposte sono in netto contrasto con quelle date da coetanei non ebrei: è raro infatti che i ragazzi fra i 13 e i 15 anni si identifichino solamente con la figura della vittima e raramente come responsabili di una discriminazione”. “Questa netta percezione espressa dai ragazzi – ha aggiunto Betti Guetta – è corroborata anche dai dati emersi nei questionari: circa il 74 per cento dei ragazzi della nostra scuola pensa che ci siano pregiudizi diffusi contro gli ebrei. E questo a causa della consistente immigrazione araba vissuta come ostile e nemica; inoltre, non da ultima, gioca la memoria della Shoà, che condiziona le percezioni ‘da vittima’ dei nostri studenti, rendendoli così uguali e diversi ai loro coetanei non ebrei: uguali per tipologia di atteggiamento verso lo straniero e diversi per background culturale, per storia, per radici”.

Recuperare i valori
Secondo Rav Alfonso Arbib, “le risposte date dai ragazzi mettono in evidenza un problema di trasmissione dei valori ebraici sull’argomento. Nella Torà, la mitzvà di amare lo straniero è ribadita 36 volte. Se ques’obbligo è reiterato così tanto significa che non è poi così facile da applicare. Nel considerare lo straniero, la tradizione ebraica quindi è molto realistica e sa che la natura umana è portata ad alimentare più facilmente un sentimento di avversione che a sua volta può generare violenza e discriminazione. Gli anticorpi? Imparare a sentirci stranieri nella nostra terra, a casa nostra, allontando il senso di sicurezza fornito dai nostri punti di riferimento. Ai nostri ragazzi dobbiamo comunicare che l’unica certezza è Dio e che non c’è nulla di stabile, sicuro, acquisito una volte per sempre, perché tutto dipende dal rapporto con Lui. Indubbiamente, questi concetti sono in netta controtendenza con i valori espressi dalla nostra società, in cui è vincitore solo chi è sicuro di sé e delle proprie certezze materiali”.

“Non opprimerai il gher”
L’empatia con lo straniero è punto focale della tradizione ebraica e fondamento su cui costruire il nostro atteggiamento nei confronti del diverso. “In Esodo 23, 9 – ha affermato lo scrittore Stefano Levi Della Torre, concludendo – è scritto di non opprimere il gher, lo straniero, perché noi conosciamo il suo stato d’animo, essendo stati stranieri in terra d’Egitto. Il punto è la sofferenza psicologica del gher, la sua anima: come capirla? Solo rieducando la nostra esperienza, solo rievocando il nostro stato di instabilità, la memoria della nostra debolezza. Lo stato di incompletezza non è forse da sempre fondante per l’essere umano? Per comprendere ciò che vive lo straniero, è necessario rievocare la nostra memoria e fare che essa sia la base su cui costruire un’etica morale. Che vada oltre un presente ‘al calduccio’ che ottunde la capacità di entrare in empatia con le difficoltà altrui. Questo è il vero significato della memoria che deve diventare strumento per capire il prossimo. Nel ricordo dell’esperienza dei nostri padri sta il fondamento della nostra convivenza con l’altro”.