di Fiona Diwan
Forse i tempi sono maturi. Forse o finalmente, chissà. Dopo più di un millennio di pietre d’inciampo forse è il tempo di deporre una pietra miliare. Le sensazioni si alternano e sono contraddittorie. Incredulità, stupore, gioia. Almeno per chi, da ebreo, vede seduti fianco a fianco vescovi, parroci e monsignori insieme a rabbini e maestri del pensiero ebraico. «La mia è una dichiarazione d’amore verso la fede dei patriarchi di Israele che sono parte costitutiva del nostro essere cristiani. Non si può essere cristiani senza questa prossimità col popolo ebraico. Tutti siamo nati lì. La nostra è una relazione indistruttibile e necessaria. La Chiesa ha bisogno della fede di Israele e Gesù può essere compreso solo nella fede ebraica. È ora di ascoltare insieme la voce di sottile silenzio che è la voce del divino. Ecco perché l’unico modello percorribile oggi tra ebrei e cristiani è la complementarietà, alla luce del Berit Olam e dell’alleanza con Dio», dice Monsignor Bruno Forte, Arcivescovo e membro della commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo.
Sono queste le parole, tra le tante, udite a Salerno il 24-25-26 novembre 2014 durante un meeting a dir poco epocale, organizzato dalla Conferenza Episcopale Italiana sul dialogo interreligioso, dal titolo “Prospettive sul re-incontro tra ebrei e cristiani”, che ha visto interventi di grande spessore religioso, un confronto tra le due fedi come forse non si era mai assistito e relatori di una statura e densità di pensiero fuori dal comune. Davanti a una platea di più di 400 persone venute dalle diocesi di tutta Italia, la CEI e il mondo ebraico convenuto a Salerno da Israele, dall’Italia e dagli Stati Uniti, sperano di far uscire la prospettiva del dialogo interreligioso dai circoli elitari e dal confronto teologico intellettuale per farlo scendere giù per i rami fino alle chiese dei parroci di campagna o delle città di provincia, per far capire chi sono gli ebrei e quali le convergenze e complementarietà dei due monoteismi chiamati oggi ad affrontare sfide globali sempre più difficili. Smascherare il pregiudizio, cambiare lo sguardo cristiano sugli ebrei e neutralizzare duemila anni di antigiudaismo della Chiesa. Un tikkun, una riparazione a cui si dicono pronti i partecipanti di questo mega incontro.
Protagonisti per la parte ebraica rabbanim della caratura di rav Irving Izchak Greenberg, uno dei grandi pensatori americani di oggi; e poi rav Shlomo Riskin, rav David Rosen, rav Eugene Korn, rav David Sciunnach, i professori David Meghnagi e Mirna Chayo, Blu Greenberg e Vittorio Robiati Bendaud, quest’ultimo anima organizzativa insieme a Don Cristiano Bettega, dell’intera iniziativa. Grande assente per motivi di salute rav Giuseppe Laras, nume tutelare e ispiratore dell’evento. Per la parte cristiana, hanno parlato invece il Cardinale Francesco Coccopalmerio, Monsignor Nunzio Galantino, Monsignor Mansueto Bianchi, Monsignor Luigi Nason, Frère Pierre Lenhardt, Monsignor Bruno Forte, Monsignor Gianantonio Borgonovo, il professor Daniele Garrone della Chiesa Valdese, Suor Mary Boys, don Damiano Modena e infine, per le conclusioni, il Cardinale Dionigi Tettamanzi, Arcivescovo Emerito di Milano.
«Era tempo per noi che si tornasse alla santa radice di Israele, radice come fonte di nutrimento e di vita indispensabile. Nutrimento che ha bisogno di essere voluto e fortemente desiderato. Per troppo tempo siamo stati lontani, indifferenti se non ostili. Parlo con un sentimento di commozione perché siamo qui non solo per l’urgenza del tema in questione ma perché da oggi “invocheremo il Nome dell’Eterno concordemente uniti”», dice aprendo i lavori del meeting Don Cristiano Bettega, direttore UNEDI (Ufficio Nazionale per il dialogo interreligioso), mente organizzativa dell’evento, che porge un teologico assist a Monsignor Galantino, Segretario generale CEI, che sottolinea: «dire “concordemente uniti” è una sfida, un’attesa, una possibilità da annunciare: perché per troppo tempo siamo vissuti, noi cristiani con gli ebrei, da separati in casa, con l’ombra del sospetto e dell’antisemitismo. Per dialogare ci vuole coraggio e disponibilità interiore, per questo dobbiamo mettere sul tavolo i nostri dubbi. Per poter sentire il profumo di una fraternità sincera e rispettosa, che sappia godere della sinfonia delle differenze. E a patto che si parli di cose reali. Una concretezza che si fa carico della sofferenza di quello che capita in Medioriente oggi, fratelli e sorelle dalla dignità ferita, oggetto di violente persecuzioni subite dalle minoranze cattoliche», spiega Galantino alludendo a ciò che accade in molti Paesi musulmani alla minoranza cristiana.
«Quando ebrei e cristiani pregano e ascoltano, entrano in un dialogo più grande di loro, un dialogo tra l’albero e la sua radice, tra Abramo e le sue genti. Un dialogo che cerca nuove nitidezze, non più offuscate dalla teologia della sostituzione. Dopo le pagine rosse di sangue scritte nella storia di ieri, dopo le pagine rosse di vergogna di oggi, il mondo cristiano, nel dialogo con la fede ebraica, deve arricchirsi di percorsi comuni», sottolinea con voce vibrante Monsignor Mansueto Bianchi, Presidente Commissione Episcopale Ecumenismo e Dialogo. Gli fa eco Rav David Rosen dell’American Jewish Committee nonché membro permanente della Commissione bilaterale Santa Sede-Stato d’Israele, che citando il Salmo 30, recita: “grazie Dio che hai trasformato il mio lutto in una celebrazione gioiosa”. Rav Rosen parla di una vera rivoluzione in atto nei rapporti tra i due monoteismi. «Per secoli le relazioni tra ebrei e cristiani sono state tragiche, di totale rifiuto. Tutto inizia nel II° secolo dopo l’E.V., con Marcione, un personaggio negativo ma molto carismatico che sosteneva che la Bibbia ebraica fosse ormai superata; malgrado all’epoca la sua presa di posizione fosse stata tacciata di eresia, di fatto la Chiesa ha seguito Marcione per duemila anni. Ma oggi, grazie a papa Giovanni Paolo II e a figure come il Cardinal Carlo Maria Martini, Marcione è stato finalmente sconfitto (applausi, ndr). Lo ammetto, faccio fatica a crederlo, ma davvero questa è una rivoluzione: Chiesa ed Ebraismo non sono più nemici ma soci».
Vittorio Robiati Bendaud, assistente di Rav Laras, portando i saluti dell’Assemblea Rabbinica, ricorda anch’egli il Cardinal Martini e l’incontro con rav Laras avvenuto al suo capezzale, e la Birkat Kohanim pronunciata dal Rav che impose le mani sul capo del Cardinale, e il prelato che a sua volta lo ricambiò con la stessa benedizione in ebraico. A questo punto, ecco la voce di Rav David Sciunnach che legge l’intervento di Rav Laras, grande assente del meeting per motivi di salute (il testo integrale del discorso lo trovate sul sito Mosaico alla voce Idee). «Dialogare, mangiare insieme, innalzare la santità di Dio: fino a pochi decenni fa sarebbe stato impensabile. Questo è un evento non facile. Uno dei rischi del dialogo è la stasi e un altro ancora è che il dialogo diventi qualcosa di elitario, un prodotto di nicchia diremmo oggi, un fenomeno gerontocratico che non tocca i giovani. Ma attenzione, così non deve essere», scrive Rav Giuseppe Laras. «Ci sono due tematiche che coinvolgono fin nei recessi più profondi l’anima di un ebreo: la Shoah e Israele. Il dialogo tra noi e il mondo cristiano non può prescindere da un confronto serio su questi temi, dalla presa di coscienza della mostruosità della Shoah, rispetto a cui, per il modo cristiano, possono nascere imbarazzi e tensioni. Non possiamo dimenticare i troppi secoli insanguinati da violenze antiebraiche da parte cristiana, e un antisemitismo che soggiace sia alla Shoah che all’avversione verso la presenza di Israele. Fino al Concilio Vaticano Secondo, abbiamo visto i danni operati dalla famigerata teologia della sostituzione che ha sfigurato e massacrato Israel. È tempo di sanare queste ferite e di redimere il passato. Anche per i cristiani è tempo di riconnettersi con le proprie radici spirituali ebraiche. Ecco perché rianimare il dialogo è urgente e necessario, per scongiurare il Chillul HaShem e il fanatismo religioso di oggi che altro non è che una pratica idolatrica da contrastare insieme senza se e senza ma. Ma anche il mondo cristiano, rinunciando all’antisemitismo, rinuncia a una tentazione idolatrica». Lo scritto di Rav Laras prosegue citando pensatori come Jules Isaac, A. J. Heshel e Emmanuel Levinas, Rav Hirsh, Rav Bakshi Doron e Rav Toledano, e si sofferma su un aspetto coraggioso – sottolineato anche da Rav Hirsh e Rav Emdin -, ovvero che «il cristianesimo ha tuttavia contribuito a sradicare dal mondo l’idolatria, beneficando il mondo e addirittura rafforzando la Torah, diffondendone i principali insegnamenti tra le genti… Tanto lavoro ci attende e ai fini di questo re-incontro tra ebrei e cristiani valga per tutti il monito di Rabbì Tarfon, ossia “non compete a te completare l’opera ma non sarai libero di esimertene”».
Un intervento denso e dirompente a cui fa da controcanto quello di Don Luigi Nason, biblista e esperto del Dialogo ebraico-cristiano, anch’egli preoccupato di un eventuale arresto del dialogo interreligioso e del rischio di un “esilio della parola”, dice Nason citando il pensatore ebreo Andrèe Neher. Don Nason cita la svolta della dichiarazione Nostra Aetate (28 ottobre 1965) e ricorda Papa Giovanni che fa togliere l’espressione perfidia giudaica dalla preghiera dell’Oremus. «La teologia cattolica ha delineato la trasformazione del pensiero cristiano contemporaneo in sei punti: il rifiuto dell’antisemitismo; il rigetto dell’accusa di deicidio; il pentimento per la Shoah; il riconoscimento dello Stato d’Israele; la rivisitazione-revisione dell’insegnamento dottrinale in relazione agli ebrei e all’ebraismo; il rifiuto di ogni proselitismo nei confronti degli ebrei. E, aggiungo io, è anche necessaria una nuova lettura delle Scritture ebraiche. Basta con i passi estrapolati dal loro contesto, quello della Torà, che sono stati alla base dell’antigiudaismo cristiano». Luigi Nason tira in ballo Giovanni Grisostomo e le sue otto omelie in cui l’antigiudaismo trova il suo apice, nel quarto secolo. Poi cita il Papa Paolo IV Carafa che istituisce i ghetti e vieta le botteghe degli ebrei fuori da quelle mura. E poi la sfilza di Bolle pontificie infami, fino a padre Rosa che nel 1938 su la Civiltà cattolica redige un testo terribile in cui parla degli ebrei come di un “popolo terribile, portatori di una colpa originaria su cui si abbatte il sangue come un lavacro di vita…”. L’analisi di Don Nason è spietata e non risparmia nulla alla carrellata storica dell’antigiudaismo cristiano. E ribadisce che senza le Sacre Scritture non si può capire il Nuovo Testamento ma anche che è inutile cercare Gesù di Nazareth nel Tanach -come invece hanno fatto duemila anni di metodo allegorico, pensiero e ermeneutica cristiana- perché non c’è, cercarlo lì è stato una forzatura, un travisamento. Anche in fatto di Shoah, Nason non fa sconti e ricorda come il primo documento ufficiale della Chiesa in merito risale al 1998 («Vi rendete conto? Con che imperdonabile ritardo la Chiesa ha affrontato l’argomento!!»): senza dimenticare una qual certa implicazione e responsabilità, visto che i nazisti erano in definitiva credenti battezzati, anche se Himmler e Hitler non potevano certo dirsi cristiani, prosegue il mea culpa di Nason. Che si sofferma anche sulla realtà di Israele e sul colpevole e ignorante atteggiamento dei pellegrini cristiani che andandoci si ostinano a chiamarla Terrasanta, che non vogliono conoscere nulla della realtà israeliana e contribuiscono a dare una visione negativa del Paese senza peraltro nutrire nessuna reale curiosità nei suoi suoi confronti, pellegrini che non vogliono saperne nulla di un Gesù ebreo e del clima storico e politico dell’epoca in cui visse. Un lungo e clamoroso intervento questo di Nason, che lascia e lascerà il segno (lo troverete in versione integrale alla voce Idee del sito Mosaico), in cui viene citato lo Shemà Israel e l’importanza di “servire HaShem spalla a spalla”, ebrei e cristiani uniti.
Se i semi gettati con questi e altri straordinari interventi daranno frutti, lo vedremo più avanti. Per la prima giornata del meeting, le parole ascoltate hanno davvero qualcosa di sorprendente. Perché il dialogo non è un optional, non è una spilla da appuntarsi alla giacca, conclude Don Cristiano Bettega: è una necessità, un imperativo teologico. Non sappiamo quando avverrà ma sappiamo che avverrà.
Salerno, 26 novembre 2014