Ci sono voluti sette anni per riportarlo in Italia.
Il dibattimento contro Seifert è stato particolarmente significativo perché riguardava un lager in territorio italiano, quello di Bolzano e una zona che era stata coinvolta poco nella Resistenza e in seguito aveva rimosso la storia del campo di concentramento.
Eppure era un vero lager in cui erano passate dirette in Germania ben 11 mila persone: ebrei, partigiani e loro famigliari, renitenti alla leva, zingari.
Il processo che si è tenuto a Verona ha visto molti testimoni, ex reclusi nel campo che hanno ricordato in modo drammatico e toccante gli 11 omicidi commessi da Seifert, un sadico che uccideva le vittime con le sue mani, bastonandole e strangolandole. Tra queste, la mamma e la nonna di un’ebrea milanese, Vittoria Menasse che, bambina, scampò miracolosamente alla cattura e poi, per molti anni lavorò per la Comunità ebraica di Milano. Tra il 1° ed il 15 febbraio 1945, in concorso con un altro militare, Seifert aveva infatti ucciso, come si legge nella sentenza ” per strangolamento le prigioniere ebree Leoni Giulia in Voghera e Voghera Augusta in Menasse, madre e figlia, dopo aver loro versato addosso acqua gelida”.
Questo caso in particolare serve a dimostrare che, nei crimini di guerra, non vale la giustificazione di aver obbedito agli ordini. Anche perché, come nel caso di Seifert, ucraino di lingua tedesca arruolatosi nelle SS, conta la libertà di scelta con cui era entrato in un corpo di criminali che faceva dello sterminio la propria religione.
Così nel dicembre del 2000 il Bollettino della Comunità aveva dato notizia della condanna:
Condannato all’ergastolo Misha Seifert torturatore nel campo di polizia e di transito di Bolzano
La tenacia e la determinazione del Procuratore capo della procura militare di Verona Bartolomeo Costantini hanno fatto il miracolo. Il 24 novembre pomeriggio si è concluso con la condanna all’ergastolo il processo contro Misha Seifert, criminale nazista operante nel campo di polizia e di transito di Bolzano nei sobborgo di Gries, accusato di torture e violenze verso i prigionieri.
Si può dire che questo processo sia iniziato subito dopo la guerra 55 anni fa per le denuncie e le testimonianze già rilasciate allora cui nessuno dette corso. Centralizzati a Roma per ragioni di snellimento e in via provvisoria, centinaia di fascicoli processuali di questo genere rimasero sepolti per anni nelle casse di uno scantinato coperti dalla polvere e dall’oblio fino a quando pochi anni fa riemersero alla luce e furono ritrasmessi alle varie Procure d’Italia. Nel 1994 la Procura militare di Verona raccolse per competenza il fascicolo riguardante Seifert.
Avuta dal Tribunale di Dortmund l’informazione che Seifert era vivo ed era stato identificato in Canada, il procedimento penale ha potuto prendere avvio e costituisce per i nostri tempi uno dei rari casi di processo concluso.
Seifert è oggi un modesto pensionato della periferia di Vancouver rispettato dai vicini di quartiere che si sono detti molto stupiti del suo torbido passato.
Come succede spesso in processi di questo genere, l’accusato era contumace anche se dal gennaio del 2000 era scattata una richiesta di estradizione da parte delle autorità italiane a quelle canadesi.
Le parti civili erano: l’ANED, l’ANPI, il Comune di Bolzano, la Comunità ebraica di Merano, l’Unione delle comunità ebraiche italiane, rappresentate dagli avvocati Sandro Canestrini e Gianfranco Maris.
Il dibattimento in aula, iniziato il 20 novembre presso il Tribunale militare di Verona, ha visto sfilare per quattro giorni testimoni che hanno raccontato orrori e sofferenze gratuite perpetrate da Seifert. Egli era un ausiliario ucraino, di quei volontari che appoggiavano la Polizia di Sicurezza tedesca con compiti di manovalanza assassina fatto venire appositamente dall’Est europeo e incaricato, assieme a un suo compatriota, delle punizioni nelle celle del campo di Bolzano.
La Fondazione CDEC, sollecitata fin dagli inizi dell’istruttoria a fornire tutti i dati in suo possesso sulla storia del campo ha presentato una perizia storica.
Liliana Picciotto storica del CDEC, Milano