Gaza sfida Hamas, ma l’Occidente guarda altrove: proteste, repressione e silenzi

Mondo

di Sofia Tranchina
Per la terza settimana di fila, i gazawi sfidano Hamas con proteste pubbliche. Mentre la repressione si fa più brutale, i media internazionali restano in silenzio.

Domenica scorsa, 6 aprile, ancora una volta, da Jabaliya a Deir al-Balah, passando per Gaza City, centinaia, forse migliaia di cittadini palestinesi sono scesi in piazza per chiedere la fine del governo di Hamas, per ricostruire Gaza libera dall’influenza iraniana. “Rilasciate gli ostaggi, cedete il potere, basta guerra con Israele, basta razzi, basta fame, basta morte e devastazione”, chiedono i gazawi.

Le proteste, iniziate il 25 marzo, sono esplose in un clima di orrore e tensione crescente, tra la ripresa dei bombardamenti e le dure dichiarazioni del ministro della Difesa israeliano Israel Katz, che ha minacciato l’annessione di parti di Gaza e l’espulsione della popolazione qualora Hamas non avesse rilasciato gli ostaggi. Da allora si sono susseguiti cortei, raduni spontanei, slogan, cartelli scritti a mano. Nei video condivisi sui social, si vedono i manifestanti urlare, a viso scoperto, “Via Hamas. Via i Fratelli Musulmani. Vogliamo vivere.” Un atto di sfida diretto a Hamas, che dal 2007 governa la Striscia con un pugno di ferro violento, dopo aver preso il potere con “elezioni democratiche” che prevedevano la defenestrazione degli oppositori da alti edifici. Ha instaurato una teocrazia islamica basata su sorveglianza capillare, repressione violenta e controllo ideologico. Il suo leader più noto, Yahya Sinwar — la mente dietro l’attacco del 7 ottobre contro Israele — è salito ai vertici uccidendo rivali palestinesi, e ha descritto i civili palestinesi morti come ‘sacrifici necessari’ alla sua causa. Intanto, gli aiuti umanitari vengono continuamente dirottati ai vertici del gruppo, lasciando la popolazione alla fame.

La reazione violenta di Hamas

Hamas ha reagito come tutte le dittature: con torture, sparizioni e repressione.

Il caso più noto è quello di Oday Al-Rubay, 22 anni, rapito, torturato e ucciso da Hamas la settimana scorsa per aver osato criticare il gruppo sui social media e aver partecipato alle manifestazioni. «Lo hanno rapito e lo hanno torturato per ore», ha raccontato alla CNN il fratello Hassan. «Indossava solo biancheria intima e i combattenti lo avevano legato per il collo con una corda. Me lo hanno restituito vivo, sanguinante, e mi hanno detto: questo è il destino di chi manca di rispetto alle Brigate al-Qassam.» Un video condiviso sui social lo mostra disteso su un letto d’ospedale, coperto di grandi tagli e lividi. Oday è morto poco dopo in ospedale. «Non venite a porgere le condoglianze prima che ci vendichiamo», avrebbe affermato un familiare al suo funerale.

Secondo Ynet News, Hamas ha giustiziato almeno sei palestinesi e ne ha picchiati pubblicamente altri in risposta alle proteste. Ma, a differenza del passato, sta evitando massacri di massa: l’attenzione internazionale è troppo alta. E così, la repressione si trasforma in un altro tipo di violenza: quella narrativa. Il movimento islamista cerca di delegittimare le proteste descrivendole come il risultato di interferenze esterne, e le minimizza, presentandole come vaghi sfoghi “contro la guerra” più che come un attacco al regime. Censura i contenuti più critici e reprime la diffusione di immagini, video, testimonianze.

«Non possono imprigionarli tutti. Non possono ucciderli tutti», ha scritto su Facebook Ahmed Fouad Alkhatib, attivista palestinese-americano e direttore del Project Unified Assistance. «Allora cercano di farli vergognare, accusandoli di essere traditori. Hamas è una minaccia esistenziale per il popolo palestinese a Gaza.»

La disperazione si è tradotta anche in giustizia privata. Secondo The National, una famiglia di Deir al-Balah ha ucciso un poliziotto di Hamas dopo che quest’ultimo aveva aperto il fuoco durante una calca fuori da un deposito di farina, uccidendo un loro parente. Hamas ha definito l’agente “una vittima di criminali” e ha dichiarato: «Non permetteremo a nessuna parte di diffondere il caos nella Striscia di Gaza o di farsi giustizia da sola.»

Anche a Gaza City la tensione è esplosa. Come riportato da Israel Hayom, un clan locale ha chiesto pubblicamente giustizia dopo che un loro figlio è stato torturato a morte dagli agenti del regime. E in un video diventato virale sui social, Hisham al-Barawi, capo di uno dei principali clan di Beit Lahia, ha affermato: «Il governo di Hamas è finito. L’organizzazione ci ha distrutti. Per noi sarebbe meglio se i sudanesi ci controllassero.»

Ufficialmente, Hamas prova a mostrarsi tollerante, in particolare agli occhi dell’opinione pubblica internazionale. Il suo ufficio stampa dichiara: «Le proteste sono un diritto legittimo e una parte essenziale dei valori nazionali in cui crediamo e che difendiamo.» Una frase studiata per mantenere una facciata di legittimità democratica, pur continuando a reprimere il dissenso.

Le voci palestinesi “contro” Hamas e il cieco Occidente

Poche voci riescono, malgrado tutto, a bucare la barriera e arrivarci da Gaza. Hamza Howidy, attivista sociale e volto storico del movimento Bidna N’eesh (“Vogliamo vivere”), è uno dei pochi a parlare apertamente. Arrestato e torturato nel 2019 per aver organizzato proteste anti-Hamas, oggi accusa il silenzio dell’Occidente: «Il popolo di Gaza è pronto a liberarsi da Hamas e rischia la vita per farlo, ma i loro sforzi vengono ignorati dal movimento filopalestinese e dai media. Se non sostengono i gazawi che rischiano tutto, che tipo di movimento è? Un movimento di natura vuota e opportunistica, che non vede i palestinesi come persone vere con lotte reali, ma come strumenti da usare nelle loro battaglie ideologiche. Per questo Mahmoud Khalil [lo studente palestinese arrestato in Europa per aver inneggiato a Hamas] è stato inneggiato come martire, mentre Oday Al-Rubay è stato lasciato morire in silenzio per mano del regime».

Anche Bassem Eid, attivista palestinese per i diritti umani, punta il dito contro l’ipocrisia: «È tempo di ascoltare la gente di Gaza, non i terroristi che controllano le loro vite.»

Secondo Khalil Shikaki, direttore del Palestinian Center for Policy and Survey Research, le proteste sono state innescate da tre fattori principali: la fame, il desiderio di porre fine alla guerra e, «soprattutto, la richiesta a Hamas di dimettersi e lasciare il governo». Tuttavia, va notato che il sentimento anti-Hamas a Gaza non implica necessariamente un desiderio di normalizzazione con Israele. Shikaki avverte che queste dimostrazioni non rappresentano ancora una minaccia concreta al controllo del gruppo islamista. I sondaggi condotti dal suo centro indicano che la maggioranza dei cittadini di Gaza attribuisce le proprie sofferenze principalmente a Israele e agli Stati Uniti. Solo uno su cinque ritiene responsabile Hamas. Inoltre, i valori fondamentali dei cittadini di Gaza in termini di identità religiosa, nazionale e disponibilità al martirio non sono diminuiti. Molti gazawi hanno espresso semplicemente il timore che, finché Hamas resterà al potere, Israele continuerà a bombardare e i civili continueranno a subire morte e sfollamento.

Le proteste sono spontanee, disorganizzate, prive di leadership e senza un programma chiaro. Non sono una rivoluzione, non sono una “Primavera araba”. Ma sono qualcosa che, fino a ieri, sembrava impensabile.

Le responsabilità dei media

Il nodo della comunicazione è centrale. Negli ultimi giorni, sempre più palestinesi hanno accusato i media — in particolare Al Jazeera — di minimizzare o ignorare le proteste anti-Hamas. In rete, il canale qatariota è stato soprannominato “Al Khanzeera” (“il maiale”), parodia del nome ufficiale che in arabo fa rima: «quando proteste e dimostrazioni contro Hamas avvengono a Gaza, Al Jazeera le copre a malapena, e questo è deliberato. Hanno impegnato le loro troupe a costruire una narrativa secondo cui noi non possiamo vivere senza Hamas» si lamentano, secondo quanto riportato da Haaretz. Ramzi, da Gaza, aggiunge: «Quando arrivano le telecamere, la gente sanguina più forte. Non perché fa più male, ma perché forse, finalmente, qualcuno ci vedrà. Si affrettano a scattare una foto a un uomo che tiene in braccio il suo bambino decapitato invece di confortarlo. Il dolore è diventato un’esibizione

La frustrazione non è solo verso Hamas e i media arabi. Anche le istituzioni internazionali sono accusate di ignorare le voci dei gazawi dissidenti. In un video condiviso da migliaia di utenti, Hillel Neuer, avvocato e direttore di UN Watch, ha denunciato il silenzio delle Nazioni Unite sulle proteste anti-Hamas.

Secondo l’analista Bret Stephens, editorialista del New York Times, Hamas è paragonabile ai Khmer Rossi della Cambogia: «un culto della morte che prometteva liberazione e promuoveva massacri, con i suoi apologeti nei campus universitari americani.» Per Stephens, la questione va oltre Hamas: «Se la richiesta fondamentale non è uno Stato palestinese accanto a Israele, ma al posto di Israele, allora il conflitto è destinato a continuare. I palestinesi devono abbandonare il terrorismo, ma anche le forme più subdole di distruzione di Israele, come la pretestuosa richiesta del diritto al ritorno per i discendenti dei rifugiati palestinesi, un diritto il cui scopo principale è quello di sommergere Israele demograficamente in modo che non sia più in grado di mantenere una maggioranza ebraica.»

In tutto questo, Gaza rimane sospesa. Le proteste non sono ancora una rivoluzione, ma ne portano un seme, con la supplica “Basta guerra, lasciateci vivere”.