di Ilaria Myr
Manifestazioni pro Palestina in cui si inneggia a Hamas. Studenti e docenti ebrei che vengono insultati come “colonizzatori”, “razzisti”, “sfruttatori”. È un’atmosfera inquietante quella che si respira nei campus americani da dopo il 7 ottobre, ma in realtà non è niente di nuovo: da decenni il lavaggio del cervello in senso antioccidentale è una prassi. E Israele e gli ebrei pagano il conto. Intervista al giornalista Federico Rampini
“Gli ebrei askenaziti, di origine est-europea, sono bianchi quindi oppressori, gli ebrei sefarditi di origine mediorientale hanno invece il diritto a stare nella categoria degli oppressi”. A leggere queste parole la prima reazione istintiva è che si tratti di uno scherzo di pessimo gusto. Invece, purtroppo, sono le parole di una ragazza italiana, un Master alla Columbia University a New York, al giornalista Federico Rampini. Corrispondente del Corriere della Sera dagli Stati Uniti, nota firma del giornalismo italiano, Rampini è profondo conoscitore del mondo americano: in questi ultimi mesi, dalle pagine e dal sito web del quotidiano, offre al pubblico italiano una fotografia molto cupa del clima che imperversa nei campus americani.
Un’atmosfera inquietante, in cui il sostegno alla Palestina si accompagna a un appoggio incondizionato a Hamas – a cui hanno inneggiato, all’indomani del 7 ottobre, 30 associazioni studentesche della prestigiosa Harvard, culla della classe dirigente americana – e un odio anti-israeliano, che sconfina troppo spesso in vero e proprio antisemitismo, che marginalizza e intimidisce gli studenti ebrei, zittisce le voci contrarie. Un odio antiebraico che ha raggiunto livelli che sembravano inimmaginabili fino a oggi, come se fosse esploso di punto in bianco. Ma che in realtà ha radici ben più profonde, in un decennale indottrinamento antioccidentale nel mondo culturale americano, in cui Israele viene identificato come “colonizzatore”, “schiavista” e “sfruttatore”, a cui si aggiunge un più recente razzismo al contrario dell’ideologia woke e del movimento “Black live matters”, che porta gli studenti bianchi a doversi giustificare per il solo fatto di essere tali. E che distingue gli “ebrei buoni” dagli “ebrei cattivi”, a seconda del loro colore di pelle.
È dunque una realtà estremamente complessa, in cui la cosiddetta “generazione Gaza” si fa portavoce di una visione manichea del mondo fatta di certezze incrollabili e di intransigenza morale.
«È un antioccidentalismo sconcertante che porta a paradossi preoccupanti, come ragazzi e ragazze dei movimenti Lgbtq che simpatizzano per Hamas che, come è noto, perseguita le minoranze sessuali – ci spiega Federico Rampini -. E non c’è dubbio che tutto questo faccia parte dell’impazzimento e del suicidio della civiltà occidentale».
Qual è la sua lettura di quello a cui stiamo assistendo? Come si è arrivati a questo?
È un fenomeno vasto, grave e preoccupante, che per certi aspetti può ricordare le manifestazioni del ’68, ma che per molti altri se ne discosta.
In queste manifestazioni che mobilitano segmenti – perché di segmenti si tratta – della gioventù americana “per Gaza e la causa palestinese” è emerso un antisemitismo molto forte, innegabile. Credo però che, al di là di una componente antiebraica, che ha radici antiche, questo sia rafforzato dall’indottrinamento antioccidentale e antiamericano a cui sono sottoposte le nuove generazioni, un vero e proprio lavaggio del cervello. Israele paga il fatto di essere, nella visione molto dogmatica di questi giovani, appiattito e identificato con la civiltà occidentale, l’America e tutto ciò che nell’ideologia dei campus universitari americani è “imperialismo della razza bianca”: per loro gli israeliani sono “colonizzatori”, “schiavisti”, “sfruttatori”, termini questi usati per la storia americana. In un’intervista pubblicata sul Corriere, una italiana che studia alla Columbia University mi raccontava come in alcune delle classi che frequenta gli ebrei askenaziti vengono assimilati ai bianchi e quindi sono dalla parte dei “cattivi”, mentre quelli sefarditi sono considerati “di colore” e quindi sono dalla parte delle vittime. Sono aberranti forme di imbarbarimento culturale e di razzismo al contrario, che però sono in atto da anni nelle università.
Certamente quello che sta avvenendo a Gaza offre delle ragioni sincere a questi manifestanti, che pensano genuinamente di lottare per salvare il popolo palestinese da una tragedia.
Allo stesso tempo, però, questi stessi giovani, che occupano i campus e gridano alla liberazione della Palestina, perdono di credibilità dal momento che subito dopo il 7 ottobre non hanno speso una parola per condannare la carneficina di Hamas, gli stupri i rapimenti di bambini, e questo inficia all’origine la credibilità e legittimità di questo movimento.
Detto questo, bisogna stare attenti a capire le dimensioni di questo fenomeno. Alcuni sondaggi recenti rivelano infatti che Gaza, Palestina e Medio Oriente sono problemi marginali per la maggior parte dei giovani: Gaza è addirittura al 15° posto fra le preoccupazioni dei ragazzi fra 18 e i 29 anni. Inoltre, non bisogna dimenticare che i campus universitari sono uno spicchio dell’America: il 60% degli abitanti di questo paese non ha un titolo di laurea.
Visti però anche i costi delle università in America, ci si aspetterebbe che chi riesce a frequentarla sia lì per acquisire cultura e filtri critici per una comprensione non appiattita del mondo …
Sarebbe bello che fosse così. Ma il livello di ideologizzazione delle università americane è un problema antico; quindi, pur arrivando a pagare facilmente 90.000 dollari in università “di élite”, non c’è affatto la garanzia di ricevere un’educazione critica. Anzi: sono luoghi molto dogmatici, conformisti, dove chi non la pensa in quel modo non ha più il diritto di parola. Sembra che il mondo lo stia scoprendo oggi, ma è da molti anni che vi vige una censura, un’esclusione delle voci fuori dal coro.
Come si è arrivati a spacciare il dogmatismo per libero pensiero? Vi è stato un peggioramento negli anni?
Come dicevo, il fenomeno è molto antico. Facendo ricerche per un libro che sto scrivendo, ho scoperto che già nel 1962 l’università di Stanford, a Palo Alto – che non è l’università più a sinistra della California -, abolì il corso di studi intitolato ‘Storia della civiltà occidentale’. Sicuramente, però, c’è stato però una crescita dell’intolleranza negli ultimissimi anni: fatti scatenanti sono stati l’elezione di Trump nel 2016, che ha ulteriormente radicalizzato il paese, e nel 2020 l’assassinio di George Floyd e la radicalizzazione dei movimenti antirazzisti, primo fra tutti il ‘Black Lives Matters’.
Lei ha scritto che, nel passato, simili manifestazioni come quelle per la guerra nel Vietnam avevano finito per rafforzare le destre. Pensa che sarà ancora così? Che questo clima preluda a una vittoria di Trump?
Non mi sbilancio sulle previsioni elettorali, siamo ancora in una situazione di grande incertezza. Vedo sicuramente delle analogie con quello che avvenne negli anni ’60-’70. La prima è con la scelta di Chicago come città che ospiterà, fra il 19 e il 22 agosto, la convention democratica, che sancirà ufficialmente la candidatura per i democratici di Joe Biden: lo fu anche nel 1968, nel pieno del conflitto in Vietnam, e la città sprofondò nel caos, con gravi scontri tra gli studenti, che protestavano contro la guerra, e la polizia, che reagì con estrema durezza. Era già stato un anno molto violento, con gli assassini di Martin Luther King (il 4 aprile) e di Robert Kennedy (il 6 giugno), e di forti scontri razziali. Nei giorni della convention, gli americani vedevano nei notiziari serali scene da guerra civile. Alla fine vinse il repubblicano Richard Nixon, sconfiggendo il democratico Hubert Humphrey, perché la sensazione di caos e anarchia portò a un voto d’ordine. Ci sono elementi che fanno credere che potrebbe accadere lo stesso quest’anno, se continua la sensazione che la società stia sprofondando nel disordine. A monte sta il fatto che il 60% della popolazione americana non ha un titolo di laurea: ed è lì che Trump pesca voti. La discriminante più chiara per sapere chi vota democratico e chi vota repubblicano rimane il titolo di studio.
Le frizioni fra Biden e Netanyahu sono cresciute negli ultimi mesi, tanto che il Presidente americano ha annunciato di sospendere l’invio delle armi a Israele se utilizzate a Rafah. Cosa sta cambiando nel sostegno degli Stati Uniti a Israele?
Biden nega e poi concede, blocca e poi sblocca le forniture militari, la sua politica in questo campo sussulta tra stop-and-go a giorni alterni. Sembra rispondere alle pressioni contraddittorie dei vari gruppi di pressione che si agitano nel partito democratico, dove anche persone moderate e filoisraeliane lo accusano di continuare a fornire armi al governo Netanyahu quando questo fa l’esatto contrario di quello che sarebbe nell’interesse degli Stati Uniti.
Detto questo, una correzione nel rapporto storico fra Stati Uniti e Israele è inevitabile.
L’America e gli immigrati islamici
«Ci sono anche fattori demografici strutturali: come in Europa, anche in America è aumentata molto la comunità di immigrati islamici, che sostengono la causa palestinese e sono anti-israeliani, se non addirittura antisemiti.
Negli Stati Uniti, però, a differenza di molti paesi europei, gli immigrati diventano facilmente cittadini americani e votano. Questo è evidente nelle elezioni in Michigan, considerato uno Stato chiave perché in bilico fra i due partiti, dove abita una grande comunità musulmana impiegata nell’industria dell’automobile. (Già nel febbraio di quest’anno, alle primarie democratiche c’erano state decine di migliaia di schede bianche, come risposta al sostegno di Biden a Israele nella guerra a Gaza, ndr).
C’è poi la comunità afroamericana: i black statunitensi, soprattutto nelle parti più radicalizzate e di religione islamica sono molto filopalestinesi. Esiste quindi un’evoluzione demografica che spinge ad allentare i legami dell’alleanza storica con Israele.
Ma l’attacco dell’Iran a Israele del 13 aprile, che ha visto l’intervento in sua difesa di diverse forze internazionali fra cui gli Usa, ha dimostrato chiaramente che Israele da solo non ce la fa: come nel 1973, Israele ha bisogno dell’alleato americano.
Lei è stato per molti anni corrispondente dalla Cina. Pensa che il nuovo asse Cina-Russia-Iran voluto da Xi Jinping per “sostituire” la NATO costituirà un pericolo reale per le democrazie occidentali e quindi anche per Israele?
Sì, l’asse tra Xi Jinping e Putin sfrutta ogni opportunità per indebolire l’Occidente. È una partita esistenziale che tocca la nostra sicurezza e i nostri interessi vitali. Su questo fronte Israele oggi paga le molte ambiguità della sua politica passata, quando ha “flirtato” sfacciatamente con Mosca e Pechino.
Negli ultimi mesi a molti professori, giornalisti, ma anche studenti ebrei viene negata la possibilità di esprimersi, perché “sionisti” (vedi il caso Molinari a Napoli, o Parenzo, che non hanno potuto parlare solo perché ebrei, o la parlamentare Ester Mieli a cui viene chiesto se è ebrea…) Come si è arrivati a questa totale svalutazione della parola ebraica?
L’antisemitismo non è mai morto, purtroppo è una bestia immonda che da mesi ha risollevato la testa in modo preoccupante. Inoltre io credo che Israele e gli ebrei in generale paghino anche la loro associazione con l’America e con l’Occidente, in ambienti che sono lobotomizzati da dottrine antiamericane e antioccidentali.
In generale, lei vede uno spiraglio positivo in questo che è uno scenario tutt’altro che confortante? Basta “fare più cultura” per combattere l’ignoranza soprattutto fra i ragazzi?
Non direi “più” cultura. Bisogna fare cultura e basta. Troppi licei e troppe università sono diventati luoghi di indottrinamento. Non si insegna più la Storia, solo una sua ridicola caricatura.