di Nathan Greppi
Oggi, in Medio Oriente, gli equilibri di forza sono profondamente mutati rispetto a prima del 7 ottobre 2023: se in precedenza l’asse sciita guidato dall’Iran era assai ramificato, oggi risulta esserlo molto meno, soprattutto a causa del crollo del regime di Assad in Siria e dell’indebolimento di Hezbollah in Libano. Tuttavia, Hamas è ancora fortemente presente nella Striscia di Gaza, mentre in Cisgiordania sia Israele che l’Autorità Nazionale Palestinese stanno cercando di stroncare la minaccia del terrorismo jihadista.
Per capire come si sta muovendo lo Stato Ebraico in questo nuovo scenario e quali sviluppi potrebbe riservare il futuro, abbiamo parlato con il brigadier generale israeliano Yossi Kuperwasser: già a capo dell’unità di ricerca dell’intelligence militare dell’IDF e direttore del Ministero degli Affari Strategici, è stato nominato da poco direttore del Jerusalem Institute for Strategy and Security (JISS). Per il 17 marzo, è stato invitato come relatore ad un convegno a Roma presso la sede del Senato della Repubblica, organizzato dal Centro Studi Machiavelli.
In una recente intervista a Il Foglio, lei ha detto che la tregua manterrà Hamas al potere. Pensa che la guerra a Gaza ricomincerà presto, o la tregua reggerà?
Sotto le attuali condizioni, se la tregua reggerà, Hamas resterà al potere, il che è inaccettabile dal punto di vista israeliano. Finora non siamo riusciti ad estirparla del tutto, perché siamo preoccupati per le sorti degli ostaggi. Ma nel lungo periodo, dovremo fare in modo che Hamas non possa più governare Gaza. Ad un certo punto, dovremo riprendere le operazioni militari.
In una precedente intervista, nel gennaio 2024, ha rimarcato il fatto che oltre al fronte militare vi è anche quello dell’arena internazionale, dove si cercava di delegittimare Israele per costringere Biden a fermare le operazioni.
In precedenza, la posizione degli Stati Uniti prevedeva che Israele si trattenesse dal fare qualunque cosa che potesse scatenare un’escalation più ampia in Medio Oriente. Questo è uno dei motivi per cui non siamo riusciti a vincere la guerra in maniera decisiva. Ma su altri fronti, abbiamo tenuto in minore considerazione la posizione americana, ad esempio causando grossi danni agli iraniani.
Oggi, con Trump alla Casa Bianca, cosa è cambiato rispetto a un anno fa?
A volte, Trump sembra spingersi ancora più in là dello stesso governo israeliano, ad esempio quando parla di trasferire l’intera popolazione di Gaza o di voler “aprire i cancelli dell’inferno se Hamas non libera tutti gli ostaggi”. Nel complesso, la situazione è cambiata radicalmente rispetto a prima. Sebbene dalla Casa Bianca giungano dichiarazioni contrastanti tra loro, credo che appoggeranno qualunque cosa Israele deciderà di fare.
In occasione della sua recente nomina a direttore del JISS, lei ha detto che “dobbiamo concentrarci sulle due minacce più immediate e urgenti alla sicurezza e alla stabilità d’Israele: sconfiggere il terrorismo a Gaza e in Giudea e Samaria, e negare all’Iran la possibilità di produrre armi nucleari”. Qual è la situazione attuale in Cisgiordania?
Attualmente vi è molta tensione in Giudea e Samaria, e in particolare nell’area nord, dove vi sono molti tentativi di perpetrare attentati terroristici. Noi oggi stiamo applicando una nuova politica al riguardo, diversa da quella degli ultimi due anni: non portiamo più avanti solo delle operazioni per colpire il cuore delle organizzazioni terroristiche, principalmente nei campi profughi, ma in più ci assicuriamo che non siano in grado di riarmarsi e riorganizzarsi dopo ogni nostra operazione.
Quali sono le differenze rispetto alle tattiche precedenti?
Prima, noi entravamo in aree dove si nascondevano dei terroristi, li prendevamo e uscivamo. Ma nel momento in cui uscivamo, i gruppi terroristici reclutavano nuovi membri e diventavano nuovamente in grado di minacciare la nostra sicurezza. Ora adottiamo un approccio differente; entriamo, staniamo i terroristi, facciamo pulizia e stiamo lì per impedire loro di riorganizzarsi. Lo facciamo in Siria, in Libano, a Gaza e anche in Giudea e Samaria. Cerchiamo di fare in modo che i terroristi non possano più riarmarsi a ridosso dei nostri confini, perché non possiamo permetterci un altro 7 ottobre.
Attacco missilistico iraniano su Israele nell’aprile 2024
Dopo la caduta del regime di Assad, l’Iran ha perso un importante alleato. Il regime iraniano rappresenta ancora una seria minaccia o si è indebolito?
L’Iran si è indebolito considerevolmente. Non hanno perso solo Assad, ma anche la possibilità di usare Hezbollah come facevano in precedenza. Anche le milizie irachene foraggiate dall’Iran oggi sono più esitanti rispetto al passato, mentre gli iraniani hanno subito gravi perdite per quanto riguarda l’aviazione militare, quando li abbiamo colpiti l’anno scorso in risposta al loro attacco aereo contro di noi. A ciò si aggiunge anche il fatto che presentano molte tensioni interne. Pertanto, oggi sono più deboli di quanto non siano mai stati. Ma questo non vuol dire che non rappresentino più una minaccia considerevole. Hanno ancora centinaia di missili a disposizione che posso raggiungere Israele, e stanno ancora arricchendo l’uranio per cercare di arrivare ad avere armi nucleari.
Pensa che il presidente americano Trump si impegnerà seriamente contro l’Iran?
Rispetto a quando c’era Biden, oggi la Casa Bianca ha un atteggiamento totalmente diverso nei confronti dell’Iran e dei suoi proxy. Già adesso, mentre stiamo parlando, stanno preparando un attacco su larga scala contro gli Houthi in Yemen (avvenuto domenica 16 marzo, ndr), e stanno mettendo molta pressione sull’Iran, imponendo sanzioni economiche e non escludendo opzioni di tipo militare. Quello che gli americani stanno cercando di ottenere è la stessa cosa che sta cercando di ottenere Israele, ossia impedire all’Iran di dotarsi di armi nucleari.
La nascita del nuovo governo di Al-Jolani in Siria è stata vista da molti come una vittoria per la Turchia. Come dovrebbe rispondere Israele a questa nuova sfida?
Al-Sharaa (altro nome di Al-Jolani, ndr) sta cercando di apparire un leader moderato e pragmatico, che ha detto di non avere intenzione di muoversi contro Israele anche perché è impegnato a ricostruire la Siria. Sono belle parole, ma dobbiamo assicurarci che siano seguite dai fatti. Siamo preoccupati perché le persone dietro di lui, legate a Hay’at Tahrir al-Sham (più nota come HTS, organizzazione jihadista guidata da Al-Jolani durante la guerra civile siriana, ndr), hanno occupato tutte le posizioni chiave in Siria e sono molto pericolose.
Non dobbiamo dimenticare che lo stesso Al-Sharaa era il leader di un’organizzazione legata ad Al-Qaida, e successivamente si è avvicinato all’ISIS. Non ha cambiato opinione, è solo un uomo molto astuto, che sa come presentarsi per sembrare moderato. Per questo, qualunque cosa deciderà di fare, ci stiamo assicurando che non possa costituire una minaccia per Israele. Questo è il motivo per cui abbiamo creato una zona cuscinetto tra la Siria e le alture del Golan, e per cui ci siamo posti a tutela dei drusi che vivono in Siria. Allo stesso tempo, vogliamo cercare di cogliere le opportunità offerte da questa nuova situazione.
Quali sarebbero queste opportunità?
Proprio come noi, Al-Sharaa è fortemente contrario alla presenza iraniana in territorio siriano, nonché all’utilizzo della Siria per il transito di armi dall’Iran a Hezbollah. Fintanto che si impegna a non permettere che i terroristi si organizzino nel sud della Siria e i nostri confini restano tranquilli, possiamo anche provare a convivere con Al-Sharaa.