Il diario di Rutka

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Il diario dell’Anna Frank polacca consegnato il 4 giugno a Yad Vashem.
Vi si legge: “Oh, ho dimenticato la cosa più importante. Ho visto un soldato strappare un bimbo, aveva solo pochi mesi, dalle braccia della madre e sbattergli la testa contro un palo della luce. Il cervello del bambino si è sparso sul legno. La madre è diventata pazza. E io lo sto scrivendo come se niente fosse. Come se facessi parte di una soldatesca esperta in atrocità. Ma sono giovane. Ho solo 14 anni, e non ho visto granché della vita”.
Datata 3 febbraio 1943, è una delle pagine struggenti del diario scritto a Bedzin, nella Polonia occupata dai nazisti, da una ragazzina ebrea di 14 anni, Rutka Laskier. Il quaderno – 60 pagine ora ingiallite vergate negli ultimi mesi della sua vita dalla ‘Anna Frank polacca’ – è venuto alla luce solo ora, 64 anni dopo la sua morte.

Lo ha consegnato al Memoriale di Yad Vashem a Gerusalemme la sua amica Stanislawa Sapinska, 89 anni, che lo ha conservato gelosamente finora.
Rutka è stata deportata nell’agosto del 1943 nel campo di sterminio di Auschwitz. Al suo arrivo nel lager è stata subito inviata in una camera a gas con la madre e il fratello. Solo il padre Yaakov è sopravvissuto. È morto nel 1986 in Israele dove aveva fondato una nuova famiglia.

Pochi mesi prima di venire uccisa, il 19 gennaio 1943, la ragazza aveva iniziato a scrivere un diario, mentre ilmondo le crollava attorno, raccontando come tante sue coetanee fatti importanti, emozioni e minuzie della vita quotidiana. Ma il quotidiano di Rutka era già fatto di violenze, soprusi, orrore.

“Ho la sensazione di scrivere per l’ultima volta. C’è una Aktion (un rastrellamento, ndr) in città. Non posso usciree sto diventando matta, prigioniera nella mia stessa casa”, riferisce al diario il 20 febbraio. “Vorrei che tutto fosse già finito. È un tormento, è l’inferno. Cerco di sfuggire a questi pensieri, di non pensare a quello che accadrà domani, ma continuano a tormentarmi”.

Nelle ultime settimane di vita Rutka aveva conosciuto Stanislava, figlia dei proprietari della casa in cui viveva. Le due ragazze erano diventate amiche. Rutka aveva rivelato a Stanislava il suo segreto, che nessun altro conosceva, le aveva parlato del diario, e le aveva fatto promettere, che anche se fosse morta lo avrebbe salvato.

La ragazzina aveva nascosto il quaderno sotto le assi del pavimento di un ripostiglio di casa. E li Stanislawa lo aveva ritrovato, conservandolo per 64 anni in ricordo dell’amica. Lo considerava un documento privato. Solo di recente un suo nipote l’ha convinta ad affidarlo a Yad Vashem perché fosse pubblicato. “Dio mio!”, invoca in febbraio, in un momento di profondo sconforto, la ragazzina. Poi si corregge: “Rutka devi essere diventata davvero pazza. Chiami Dio come se esistesse. La fragile fede che avevo prima è stata completamente distrutta. Se Dio esistesse, certamente non avrebbe permesso che esseri umani fossero gettati vivi nei forni, o buttati nei sacchi e uccisi col gas, che le teste dei neonati venissero schiacciate col calcio delle pistole”. “Chi non avesse visto tutto questo non potrebbe crederci: ma non è un mito, è la realtà!”. “Se almeno potessi dire, è finita, si muore una volta sola… Ma non posso, scrive Rutka in una delle ultime pagine del diario, perché nonostante tutte queste atrocità voglio vivere”.