di Ilaria Myr
Turchia: gli ebrei e la rielezione di Recep Tayyip Erdogan. Crisi economica. Inflazione galoppante. Il terribile terremoto. Come molti altri turchi, anche il mondo ebraico ha sperato in un cambio di marcia. Ritratto post-voto di una comunità che, in un Paese sempre più religioso, riesce a restare in equilibrio mantenendo sempre un profilo basso
«Sono distrutta. Speravamo finalmente in un cambiamento, in una svolta, ma questi risultati ci hanno scoraggiato». Sono parole amare e profondamente deluse quelle che l’amica Miriam (nome di fantasia), ebrea di Istanbul, ci consegna all’indomani delle elezioni in Turchia del 14 maggio, che per la prima volta negli ultimi vent’anni hanno visto arrivare al ballottaggio Recep Tayyip Erdogan – presidente del Paese dal 2014 e primo ministro dal 2001 al 2014 – e Kemal Kiliçdaroğlu, leader del partito laico e di centrosinistra Chp. E l’esito del secondo turno del 28 maggio ha confermato i timori di Miriam e di molti altri turchi, con la riconferma di Erdogan a Presidente del Paese, che ha ottenuto il 52.14% delle preferenze contro il 47.86% del rappresentante dell’opposizione. Eppure il fatto che si fosse arrivati a un testa a testa, con un’affluenza alle urne ben sopra all’80%, aveva fatto ben sperare chi credeva che fosse giunto il tempo di cambiare. Determinante nelle speranze di molti è stata l’inflazione galoppante che da alcuni anni sta fiaccando l’economia, che ha raggiunto in marzo il 50,51% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, secondo l’Istituto di statistica nazionale Tuik.
Ma non è bastato. La fiducia in un leader forte – mentre lo sfidante era invece ritratto da molti media come “non carismatico” -, che ha puntato in questi anni sul culto della personalità, e il timore di metà della popolazione di ritrovarsi senza una guida in un Paese in perenne emergenza sono state le chiavi della vittoria di Erdogan. Da non sottovalutare, poi, il potere del Presidente sui media nazionali, che gli hanno dato una copertura spropositata rispetto allo sfidante (si dice 70 ore contro 30 minuti). A voltare le spalle a Erdogan la costa Egea e Mediterranea e le grandi città come Istanbul e Ankara, dove la maggioranza della gente ha una visione ben diversa da quella della gente dell’Anatolia e del Mar Nero, che lo adora, lo vota in massa ed è pronta a perdonargli tutto. Il presidente turco ha dominato anche nelle aree colpite dal devastante sisma dello scorso 6 febbraio, in cui sono morti il Presidente della comunità ebraica di Antiochia Saul e Fortuna Cenudioglu (marito e moglie). Il sud est a maggioranza curda ha visto un leggero vantaggio a favore di Kiliçdaroğlu, che era sostenuto dai filocurdi di Hdp, ma ha perso voti in seguito alle alleanze concluse con gli ultranazionalisti tra il primo e il secondo turno.
“Poi c’è anche da considerare un numero imprecisato di nuovi cittadini arrivati dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Irak o da altri Paesi che hanno avuto diritto di voto e quei 14-15 milioni che dipendono dai sussidi pubblici e che hanno scelto il Presidente in carica per ragioni economiche più che ideologiche”, spiegava al Corriere della Sera il 23 maggio Soli Ozel, docente di relazioni internazionali alla Kadir Has University di Istanbul. Una parte della popolazione, quella degli immigrati, che oggi, a elezioni finite, il fronte liberale riconosce di dovere integrare e coinvolgere maggiormente nella cultura e nella vita politica.
Quello che emerge da queste elezioni è dunque un paese spaccato in due dove si contrappongono due visioni opposte della società: una più liberale e una più tradizionalista e religiosa, che trova sicurezza nell’“uomo forte”.
Un voto ebraico?
In questo quadro rientra il voto della comunità ebraica turca che conta circa 20.000 membri situati principalmente nelle grandi città, Istanbul, Izmir e Ankara. Ma avere delle informazioni dettagliate su come hanno votato gli ebrei si è rivelato molto più complesso di quello che credevamo: abbiamo infatti cercato di contattare diverse persone che abitano lì, ma la risposta è quasi sempre stata “non me la sento di parlare”. Prudenza? Timore? Forse entrambe le cose. Di sicuro domina il desiderio di non esporsi (e anche per questo nell’articolo usiamo alcuni nomi di fantasia).
Come ci rivelano membri della comunità di Milano che hanno lì i famigliari, «gli ebrei in Turchia hanno sempre evitato di sbandierare la propria identità ebraica e il supporto a Israele, perché si tratta comunque di un paese musulmano. Nonostante ciò, da vent’anni a questa parte, da quando cioè Erdogan è al potere, si può dire che gli ebrei vivano bene e non abbiano problemi con il governo. Però è sempre meglio mantenere un profilo basso…».
Un atteggiamento, questo, confermato anche dal rabbino capo della Turchia Ishak Haleva allo scrittore Tuvia Tenenbom in un’intervista pubblicata il 12 giugno sul sito ebraico tedesco Jüdische Allgemeine. “Ci siamo semplicemente abituati a non distinguerci (…). Un tempo qui si prendevano in giro gli ebrei. E ci veniva detto di parlare solo in turco fuori dalla sinagoga (…). Ma a differenza di altre comunità ebraiche nel mondo, qui la comunità ebraica ha accesso diretto ai vertici del governo quando ha un problema (…). Erdogan? Ha un buon cuore. Ha un cuore compassionevole. È un uomo che ha rispetto per la religione. Una volta, dopo uno degli attentati alla sinagoga, è passato di qui. Ed era triste. L’ho capito, perché sono un insegnante e posso vedere negli occhi di un bambino quando è davvero triste. Erdogan era triste e potevo vedere la sua sofferenza. Soffriva perché i cittadini turchi venivano uccisi”.
Interessante è quello che ha dichiarato Albert Zara, ebreo di Istanbul e membro del Bené Berith locale alla testata francese LPH Info. “Non ci sono state indicazioni dall’alto per il voto: sicuramente però il fatto che quasi tutti gli ebrei vivano nelle grandi città fa pensare che in molti non abbiano sostenuto Erdogan”. Allo stesso tempo, però, non è detto che questo si sia tradotto in un voto allo sfidante, il cui partito, negli anni Trenta, aveva promulgato una tassa sulla fortuna, che aveva colpito duramente gli ebrei. «Per questo motivo i nostri genitori anziani, che all’epoca avevano subito gli effetti di questa legge, piuttosto che votare l’esponente di quel partito hanno deciso di non votare», ci spiega ancora qualcuno della comunità milanese di origine turca.
«Ci sarà fra gli ebrei qualcuno che avrà votato per Erdogan – continua Albert Zara -. Detto questo, rimane il fatto che la comunità è molto piccola – 20.000 su 83 milioni di abitanti – e il suo voto non ha avuto alcuna influenza sugli esiti».
Nella maggioranza degli ebrei, però, rimane una grande delusione. «La stragrande maggioranza crede in una Turchia laica. Pertanto si sono schierati per il candidato dell’opposizione Kemal Kiliçdaroğlu – spiega a Bet Magazine-Mosaico Hay Eytan Cohen Yanarocak, esperto di Turchia moderna presso il Jerusalem Institute for Strategy and Security (JISS) e il Moshe Dayan Center presso l’Università di Tel Aviv -. Molti di loro credevano davvero che il cambiamento fosse possibile.
Ma ora devono andarsene con questa amara verità che la Turchia non è cambiata affatto. Ora devono far fronte al deterioramento dell’economia o devono lasciare il Paese per un futuro migliore in un altro Stato. Israele o qualsiasi altro paese anglofono o dell’UE».
Erdogan e Israele
Concreto, seppure anch’esso potenzialmente fragile, è il rapporto fra la Turchia di Erdogan e Israele. Da qualche anno infatti, il leader turco ha messo in atto diverse politiche di collaborazione con lo Stato ebraico, portando a un effettivo miglioramento dei rapporti bilaterali. Allo stesso tempo, però, Erdogan non ha mai smesso di criticare Israele per la questione palestinese e anzi la Turchia è diventata a partire dal 2010 uno dei maggiori sponsor delle formazioni palestinesi, grazie anche ai soldi degli alleati del Qatar. Un atteggiamento, dunque ambiguo quello della Turchia nel rapportarsi con Israele da una parte e i palestinesi dall’altra, che evidenzia come il riavvicinamento tra i due paesi sia soprattutto figlio di esigenze pratiche, in particolare della necessità di Ankara di contenere la gravissima crisi economica.
«Ironia della sorte, poiché Erdogan è stato l’architetto della normalizzazione tra Israele e Turchia, la sua rielezione è una buona notizia per Israele – continua Cohen Yanarocak -. L’attuale politica estera turca cerca stabilità e cooperazione. Questo è un must per la fragile economia turca». Da non dimenticare, poi, il grande supporto dato da Israele dopo il terremoto che ha colpito Turchia e Siria e che è stato molto apprezzato ad Ankara.
(Photo courtesy by Adem ALTAN / AFP)