di Francesco Paolo La Bionda
Lo scorso 24 settembre oltre trecento funzionari e leader tribali iracheni si sono riuniti a Erbil, capitale della regione federale del Kurdistan, per una conferenza organizzata dal think-tank americano Center for Peace Communications (CPC). L’evento ha impresso una svolta senza precedenti sulla storia del paese: i partecipanti hanno infatti apertamente chiesto la normalizzazione delle relazioni con Israele attraverso l’adesione agli Accordi di Abramo.
Una mossa sorprendente e coraggiosa, se si pensa che l’Iraq è ufficialmente in guerra con lo stato ebraico sin dalla sua fondazione nel 1948. Corpi di spedizione iracheni hanno combattuto sui campi di battaglia di tutte e tre le guerre arabo-israeliane e nel 1991 il regime di Saddam Hussein, allora al potere a Bagdad, lanciò missili Scud contro Tel Aviv e Haifa, nel tentativo di trascinare Israele nella prima Guerra del Golfo. Fino al 2010, l’accusa di “sionismo” era punita con la morte, pena poi commutata nel carcere a vita.
Oggi tuttavia il paese è profondamente cambiato: il Kurdistan, de facto uno stato autonomo all’interno della repubblica irachena, intrattiene relazioni ufficiose ma cordiali con Israele, tanto che quest’ultimo ne aveva sostenuto – anche improvvidamente – il referendum per l’indipendenza, poi fallito, nel 2017. Nel resto del paese, la popolazione sunnita vede oggi come suo primo avversario l’Iran, presente tramite le milizie proxy sciite, che condizionano pesantemente la vita nazionale e discriminano i musulmani di diversa appartenenza.
Le dichiarazioni
Così alla conferenza di Erbil Wisam al-Hardan, leader tribale sunnita e già alleato degli statunitensi nel dopo-Saddam, ha chiesto “l’instaurazione di pieni rapporti diplomatici con lo Stato d’Israele… e una nuova politica di normalizzazione basata sulle relazioni dirette con i cittadini del paese”.
Parlando del precedente degli Accordi di Abramo, Amir al-Jubouri, ex generale dell’esercito iracheno, ha commentato “Abramo ha dato vita a una nazione che ha spianato la strada per la pace. Oggi noi, i suoi discendenti delle tre maggiori religioni, abbiamo la responsabilità di completare questo percorso”. Al-Hardan ha inoltre richiamato l’attenzione sulla pace e la stabilità che caratterizzano i paesi firmatati degli Accordi, in contrasto con “la devastazione e il tribalismo armato” che imperversano nel resto della regione mediorientale.
Sahr al-Ta’i, una funzionaria del governo per le attività culturali, ha poi anticipato che sarebbero stati formati diversi gruppi di lavoro a margine della conferenza, inclusi comitati per migliorare le relazioni tra l’Iraq e la diaspora ebraica di origine irachena. La comunità locale, che contava 150.000 persone alla fondazione di Israele, è stata azzerata da pogrom e persecuzioni che si sono succedute nei primi decenni del dopoguerra, e oggi il paese può contare appena tre cittadini di fede ebraica.
al-Ta’i ha inoltre toccato il tema della questione palestinese, che ufficialmente costituisce la ragione per la quale l’Iraq non vuole stabilire relazioni con Israele, spiegando come invece intessere rapporti diplomatici con lo stato ebraico potrebbe essere utile: “vediamo la pace come la migliore e anzi l’unica via per sostenere il popolo palestinese a formare una struttura statale e garantire un futuro migliore alle nuove generazioni”.
Le reazioni
Gli echi della conferenza hanno suscitato scandalo e furore tra i leader di vedute più ristrette. Il presidente iracheno Barham Salih ha definito l’evento “illegale” e ha accusato i partecipanti di intenti eversivi, mentre le forze dell’ordine hanno emesso mandati d’arresto contro gli oratori e minacciato di identificare e catturare anche l’auditorio. L’influente religioso sciita Muqtada al-Sadr, già capo di una delle più grosse milizie antiamericane, ha intimato a Erbil di impegnarsi a evitare che possano ripetersi altri meeting “di terroristi sionisti”.
Non sembrano esserci quindi molte prospettive nell’immediato di una riappacificazione tra Bagdad e Gerusalemme; tuttavia, come faceva notare Lazar Berman in un’analisi della vicenda sul Times of Israel, Israele dovrebbe continuare a sostenere discretamente il diritto degli iracheni a manifestare liberamente le proprie opinioni, nella speranza che le nuove generazioni possano crescere con una mentalità più libera dai pregiudizi antisemiti e antisionisti dei loro padri.