L’Orfanotrofio di Berlino

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Si viene a conoscere adesso per la prima volta la straordinaria storia del salvataggio di 300 bambini ebrei portati dalla Germania in Terra di Israele prima dello scoppio della seconda guerra mondiale.
Un giorno una regista israeliana vide una piccola targa all’ingresso di un malridotto edificio di Berlino. Incuriosita si avvicinò e quale non fu il suo stupore nel vedere la foto della sua prozia Beate Berger che era stata la direttrice dell’orfanotrofio ebraico ‘Beit Ahava’ nel 1930: la targa spiegava che la Berger aveva organizzato il salvataggio di 300 bambini ebrei dell’orfanotrofio dalle grinfie dei nazisti.

Questo inaspettato incontro con la sua dimenticata parente indusse la regista a compiere un’approfondita ricerca su questa operazione di soccorso e a cercare di ritrovare gli antichi orfanelli che fossero ancora in vita. Su questi fatti sta per uscire un libro e un documentario. L’orfanotrofio Beit Ahava fu istituito dopo la prima guerra per accogliere bambini che provenivano dall’est europeo che avevano perso i genitori o le cui famiglie non avevano i mezzi per mantenerli.
Dal 1922 lo diresse la Berger con metodi pedagogici innovativi. Quando i nazisti presero il potere e iniziarono le sistematiche persecuzioni degli ebrei tedeschi, la Berger prese la decisione di spostare l’istituto dalla Germania in Palestina.
Non fu certo una cosa facile superare le infinite difficoltà che le si pararono davanti, non ultima quella del rifiuto dei dirigenti della comunità ebraica tedesca di prendere atto dell’imminente pericolo, e anche la ferrea politica di immigrazione del Mandato britannico, o le priorità fissate dalla comunità ebraica in Palestina relative ai flussi di immigrazione.
Il 1° aprile 1933 in Germania fu dichiarato il boicottaggio generale contro ogni attività ebraica e ciò fece decidere la Berger a organizzare immediatamente la spedizione. Si recò in Palestina per ottenere dal Fondo Nazionale il denaro necessario alla costituzione di un istituto a Kiryat Bialik, vicino a Haifa (che tra parentesi è la sede dell’attuale orfanotrofio) dove si stava creando un centro per accogliere gli ebrei tedeschi. E ottenne anche finanziamenti dalla comunità ebraica in Germania. E dato che era proibito esportare soldi, se li mise addosso con grave pericolo per la sua vita.

Il primo gruppo di bambini e ragazzi, che in previsione di una vita in Palestina avevano ricevuto un addestramento agricolo e imparato l’ebraico, lasciò Berlino a Pasqua del 1934. Alla stazione incontrarono degli ufficiali nazisti che dissero loro: “Andate in Palestina e non tornate più”. Per la preparazione del documentario la regista ha dovuto lottare contro il tempo perché molti dei protagonisti di quella fuga sono ormai ultraottantenni o non sono più al mondo. Per rintracciare i superstiti e farsi raccontare da loro queste vicende vennero pubblicati degli annunci in tedesco e le risposte arrivarono numerose da parte di chi non voleva che tutto venisse dimenticato.
Il terzo convoglio organizzato da Beate Berger ad esempio, portò in Palestina anche una bambina oggi nonna che racconta come i suoi genitori benché lontani dal sionismo avessero letto del progetto di immigrazione dei bambini e avessero fatto in modo di farla partire, ripromettendosi di raggiungerla più tardi. Ma le porte dell’immigrazione erano ormai chiuse e la loro destinazione fu Theresienstadt.
Questa storia è simile a quella di Janusz Korczak, l’eroico maestro che morì ad Auschwitz con i suoi orfanelli. Lui compì un atto di eroismo. Ma quella di Beate Berger che salvò 300 vite e non fece una morte eroica, è una storia che sta per scomparire nel nulla. Questi antichi orfanelli vogliono contribuire a non farla dimenticare.