La stella e la lancia: Israele e il Sudafrica, un rapporto travagliato

Mondo

di Nathan Greppi

Quando era un avvocato, Nelson Mandela aveva forti legami con la comunità ebraica in Sudafrica: uno studio legale gestito da ebrei gli offrì degli incarichi quando nessun altro l’avrebbe fatto, e una fetta consistente degli attivisti bianchi contro l’apartheid erano ebrei.

Inoltre, pur avendo avuto stretti rapporti con l’OLP di Yasser Arafat, una volta Mandela disse che “come movimento, riconosciamo la legittimità del nazionalismo palestinese così come riconosciamo la legittimità del sionismo come nazionalismo ebraico. Insistiamo sul diritto dello Stato d’Israele ad esistere entro confini sicuri, ma con uguale vigore sosteniamo il diritto palestinese all’autodeterminazione nazionale”.

Decenni dopo l’ANC (African National Congress), che fu il partito di Mandela, sembra aver rinunciato a questo pragmatismo. In seguito al 7 ottobre, dopo aver fatto chiudere l’Ambasciata israeliana in Sudafrica, il governo guidato da Cyril Ramaphosa ha cercato di far condannare per genocidio Israele presso la Corte Penale Internazionale.

Tuttavia, a causa dei problemi socioeconomici che dilaniano nel paese, le elezioni sudafricane tenutesi a giugno hanno visto l’ANC perdere la maggioranza assoluta dei seggi per la prima volta dalla fine dell’apartheid, costringendo Ramaphosa a formare un governo di coalizione con altri partiti. Alcuni di questi, come il partito di centro Alleanza Democratica e quello di destra Freedom Front Plus, hanno espresso posizioni filoisraeliane.

Per capire se ciò porterà a dei cambiamenti anche nei rapporti tra Pretoria e Gerusalemme, e come sta vivendo la situazione dopo il 7 ottobre la comunità ebraica sudafricana, abbiamo parlato con Howard Feldman: imprenditore, editorialista e scrittore, collabora con il settimanale South African Jewish Report, il sito di notizie News24 e l’emittente radiofonica Chai FM 101.9. Suoi articoli sono apparsi anche sul Jerusalem Post e il Times of Israel.

Come ci può descrivere la reazione del Sudafrica ai fatti del 7 ottobre?

Innanzitutto, occorre fare una distinzione tra l’ANC e il popolo sudafricano. Tra il 7 e l’8 ottobre 2023, la reazione dell’African National Congress è stata orribile; si sono mostrati fin da subito vicini alla causa palestinese, senza mai mostrare alcuna empatia nei confronti della comunità ebraica né chiedere agli ebrei sudafricani come si sentivano in quel momento.

Questo atteggiamento è proseguito anche in seguito, fino alla campagna elettorale. Durante l’ultima manifestazione dell’ANC in vista delle elezioni, tenutasi al Soccer City Stadium di Soweto, sventolavano più bandiere palestinesi che bandiere sudafricane. Avresti potuto scambiarla per una manifestazione palestinese.

Hanno voluto rimarcare fin da subito il loro allineamento non solo con i palestinesi, ma anche con Hamas. Prima ancora che Israele iniziasse la sua risposta militare al 7 ottobre, è venuto fuori che l’allora Ministro degli Esteri sudafricano, Naledi Pandor, aveva fatto una telefonata ai vertici di Hamas. In un primo momento il suo staff ha cercato di negare, ma quando è risultato evidente, si è giustificata dicendo che voleva solo offrire loro sostegno umanitario. Peccato che l’avesse fatto quando l’operazione militare israeliana non era ancora iniziata, e non ha mai pensato di offrire aiuto agli israeliani sfollati dai villaggi al confine con Gaza.

Come viene vissuta questa situazione all’interno della comunità ebraica?

A causa di questo tradimento a sangue freddo da parte del governo, i rapporti tra il presidente Cyril Ramaphosa e la comunità ebraica sudafricana sono andati distrutti, e non credo che si potranno mai riparare. Non potrà mai essere perdonato il modo in cui si è comportato.

Anziché essere equidistanti ed equilibrati, quelli del governo hanno cercato di cavalcare quello che ritenevano essere un ampio sostegno popolare in quella direzione, che invece li ha penalizzati nelle urne. E questo mi porta alla distinzione tra il governo e il popolo del Sudafrica; questi ha molto a cuore concetti come libertà di espressione, libertà di culto, antirazzismo e uguaglianza di genere. Ciò è probabilmente dovuto al nostro triste passato legato al regime dell’apartheid, che ha fatto capire ai sudafricani che cos’è l’oppressione.

Per questo, da parte della popolazione non si vedono quelle manifestazioni d’odio contro Israele che vediamo altrove. Ci sono state delle manifestazioni pubbliche, ma non ci sono la violenza e l’antisemitismo che vediamo in altre parti del mondo. Non si vedono attacchi contro sinagoghe e scuole ebraiche.

Che cosa ha spinto l’ANC, dopo il 7 ottobre, a mettere in atto una politica tanto ostile nei confronti d’Israele?

Bisogna capire che l’ANC si è sempre identificato con la causa palestinese. Tuttavia, in passato questa posizione era molto più ponderata; lo stesso Nelson Mandela riconosceva che Israele aveva bisogno di sicurezza, e allo stesso tempo che dovesse essere riconosciuto il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi. Un atteggiamento condiviso anche da molti ebrei sudafricani, convinti che due Stati debbano convivere fianco a fianco.

Purtroppo, vuoi per i suoi stretti rapporti con l’Iran e Hamas o per altri motivi, il governo si è spostato su posizioni molto più sbilanciate. Oggi non hanno più credibilità, il ché è un peccato; potendo telefonare a quelli di Hamas, l’ANC avrebbe potuto giocare un ruolo positivo come mediatore, anche contribuendo ai negoziati per la liberazione degli ostaggi.

La sinagoga di Pretoria

Come opinionista che si occupa di ebraismo e Israele, che riscontro riceve in Sudafrica?

Personalmente, io mi esprimo molto pubblicamente a favore d’Israele, e per questo ricevo diversi attacchi online. Ma fortunatamente, ciò non si è mai tradotto in minacce fisiche.

Più in generale, gli ebrei non rischiano particolarmente di essere attaccati per le strade del Sudafrica. Al contrario, camminando nella periferia di Johannesburg, si possono vedere poster e nastri gialli appesi sugli alberi per chiedere la liberazione degli ostaggi israeliani. Quando dei visitatori stranieri vengono in Sudafrica, dicono che nei loro paesi questi verrebbero rimossi. Ma a Johannesburg, ciò non avviene.

Dopo le elezioni di giugno, sono stati inclusi nel nuovo governo sudafricano anche partiti con posizioni filoisraeliane. È cambiato qualcosa da allora?

Direi di sì. Oggi l’ANC deve mostrarsi più cauto, anche se non può fare marcia indietro su tutto ciò che ha fatto in passato. Il messaggio ricevuto alle elezioni è che ha molte sfide da affrontare in casa, e che il governo deve pensare più a risolvere i problemi interni che a un conflitto lontano migliaia di chilometri.

Come organizzazione, l’ANC è un fallimento, e molti sudafricani sentono che li ha abbandonati. Durante il suo discorso inaugurale per il nuovo governo, Ramaphosa ha dichiarato di aver recepito questo messaggio, e che si concentreranno sul risolvere i problemi interni del Sudafrica. Se ci riusciranno o meno, questo non lo so, anche perché alla fine quelli dell’ANC rimangono sempre gli stessi.

Il Sudafrica è un paese multietnico, dove convivono culture diverse. Tra queste, ci sono delle differenze per quanto riguarda la diffusione dell’antisemitismo e dell’antisionismo?

In generale, l’antisemitismo è poco presente in tutti i gruppi. Piuttosto, a Città del Capo è molto forte la comunità musulmana, e anche se la maggior parte dei musulmani sudafricani non sono antisemiti, alcuni di loro si sono radicalizzati. Oggi, buona parte dell’antisemitismo in Sudafrica proviene da gruppi di estrema sinistra.

Quando devono tutelare la propria sicurezza, le comunità ebraiche ricevono qualche aiuto da parte delle autorità?

Lo Stato non fornisce alcuna protezione ufficiale ai luoghi ebraici. Se si presentano rischi evidenti, la comunità ebraica ne discute con l’intelligence, ma per il resto, deve badare a sé stessa con il proprio servizio di sicurezza.

Alla luce della situazione nel paese, come vede il futuro dell’ebraismo sudafricano?

Il futuro dell’ebraismo sudafricano è intrinsecamente legato al futuro del Sudafrica. Credo che gli ebrei sudafricani decideranno di restare solo se il paese tornerà a prosperare. In altre parole, più che l’aspetto religioso contano l’accesso ad un buon sistema sanitario, le prospettive di carriera lavorativa, l’istruzione e la sicurezza; cose che preoccupano tutti i sudafricani, non solo gli ebrei.