Angela Merkel

L’eredità di Angela Merkel per il futuro ebraico-tedesco

Mondo

di Daniel Mosseri, da Berlino

Il suo governo ha istituito la figura del Commissario federale per la lotta all’antisemitismo, ricoperto da Felix Klein. È scesa in piazza per dire no allo Judenhass, l’odio per gli ebrei. Lascia un Paese in cui il rischio di estremismi di destra, di sinistra e di Islam radicale è dietro l’angolo

Fra poche settimane si cambia: esce di scena la Cancelliera cristiano democratica Angela Merkel arrivata alla guida della Germania nel lontano 2005. Al suo posto dovrebbe insediarsi il suo attuale Ministro delle Finanze socialdemocratico Olaf Scholz. Nonostante l’annunciato cambio di maggioranza – fuori la Cdu e dentro Verdi e Liberali – con Scholz la Germania ha trovato una misura di continuità. Continuità, c’è da scommetterci, ci sarà anche nella lotta all’antisemitismo, un male dal quale la Repubblica Federale tedesca – al pari del resto d’Europa – non è guarita nonostante le cure somministrate dagli ultimi quattro governi della Cancelliera venuta dall’est. Oggi come ieri il pregiudizio antiebraico in Germania è vivo, alimentato da forze fra loro anche antitetiche e in trasformazione. L’odio antisemita trae forza dall’estremismo di destra, un fenomeno in crescita per episodi di violenza in anni recenti, ma cresce anche all’espandersi della galassia dell’Islam radicale, declinato nelle sue componenti salafita (con la barba lunga e la galabeya) e della Fratellanza musulmana (in giacca e cravatta). Non mancano poi due forme di antisemitismo meno conclamato: quello della sinistra che si straccia le vesti per gli ebrei vittime dello sterminio nazista ma che è poi sempre pronta a criticare – se non a boicottare apertamente Israele –; e poi quello delle chiese cristiane troppo spesso pronte, fra parrocchie e ong, a rileggere il conflitto arabo-israeliano in chiave originale, con i palestinesi nel ruolo del bambinello ebreo Gesù anche quando lanciano missili sugli israeliani, diventati invece l’incarnazione moderna di Erode. Non ultimo, l’odio trova nuova linfa fra i complottisti e i diffusori di fake news, ostili al governo, contro Big Pharma, i vaccini e, ovviamente, ostili agli ebrei. In questo, forse, la Germania non è troppo dissimile dall’Italia.

Secondo i numeri ufficiali forniti dal Consiglio centrale degli ebrei tedeschi (ZdJ), gli iscritti alle comunità ebraiche – almeno l’80% dei quali di origine sovietica – sono calati da 108 mila unità nel 2005, anno di arrivo di Merkel al potere, a 93 mila nel 2020. L’aumento in anni recenti degli asili e delle scuole ebraiche e delle sinagoghe indicherebbe però il contrario: vero è che un numero crescente di ebrei non si iscrive alle comunità. Il calo dei “fedeli” è diffuso anche fra cattolici e protestanti e dipende dal meccanismo della Kirchensteuer, la tassa sul culto per cui ogni tedesco iscritto a una comunità religiosa deve versare ogni anno alla stessa il 9% dell’imposta sul reddito. Dove ci sono gli ebrei c’è l’antisemitismo, un fenomeno «di cui oggi si parla e si discute di più», spiega a Bet Magazine Alexander Rasumny, dell’ufficio berlinese della RIAS, Osservatorio tedesco sul pregiudizio contro gli ebrei. Se il primo Governo Merkel (2005-2009) non ha lasciato il segno contro l’odio antiebraico, nel 2009 il Bundestag ha lanciato la prima Commissione indipendente di esperti sull’antisemitismo, che ha presentato il proprio rapporto nel 2011. Una seconda Commissione del 2013 ha concluso i propri lavori nel 2017.

I governi Merkel si sono mossi seguendo le indicazioni degli esperti, «sostenendo per esempio le organizzazioni come la RIAS che aiutano le persone a denunciare gli atti di discriminazione», osserva Rasumny. Ecco perché l’antisemitismo risulta in crescita in Germania: chi lo subisce, non rimane più in silenzio. «Rispetto al 2005, alla fine cioè della Seconda Intifada, oggi c’è molta più consapevolezza sui crimini per odio contro gli ebrei e le altre minoranze; soprattutto si sa distinguere se un atto di odio è di carattere antisemita». Secondo Rasumny è merito del governo tedesco «che ha avuto un ruolo primario nello sviluppare, a livello di Unione Europea, una definizione di lavoro dell’antisemitismo, poi diventata la definizione dell’IHRA». Non si tratta solo di gesti simbolici: a settembre del 2017 il governo tedesco raccomandò alla polizia di utilizzare la risoluzione come linea guida nel suo lavoro quotidiano. Ad aprile del 2018, l’ultimo governo Merkel ha creato la figura del Commissario federale per la lotta all’antisemitismo, un ufficio ricoperto dal diplomatico tedesco Felix Klein. «È spaventoso vedere come questo tipo di odio viene espresso verso gli ebrei tedeschi e le sinagoghe qui in Germania», ha dichiarato Klein lo scorso maggio, quando all’ennesimo conflitto fra Hamas e Israele è seguita una nuova ondata di violenza antisemita mascherata da proteste contro Israele: sassaiole contro le sinagoghe, roghi di bandiere israeliane, slogan antisemiti scanditi in piazza da giovani di origine araba o turca. Lo stesso era accaduto nel 2014: allora la figura del commissario non esisteva ancora. Quell’anno fu Angela Merkel a chiedere ai tedeschi di scendere in piazza per dire no allo Judenhass, l’odio per gli ebrei sbandierato dietro a una pretesa solidarietà con i palestinesi.

Merkel contro l’antisemitismo
La Cancelliera e i suoi governi sono sempre stati in prima fila nel reprimere e nell’educare. Hanno fatto un buon lavoro? Saranno gli storici a dare una risposta. Merkel però è anche la leader che ad agosto del 2015 aprì le porte della Germania a oltre un milione di profughi siriani, iracheni e afghani in fuga dalla guerra nei rispettivi paesi. Un atto umanitario. Eppure «sarebbe naif credere che questo gruppo di persone non si sia portato dietro dell’antisemitismo», riprende Rasumny, sottolineando come le strutture che oggi organizzano le manifestazioni anti-Israele e le associazioni per l’accoglienza dei profughi spesso coincidano. Il rifugiato che fugge da una guerra di religione o da una dittatura islamica finisce così per essere accolto in Germania da altri fanatici che le autorità politiche non riconoscono come tali.

 

Il problema turco
La miopia di tanti governi europei, quello tedesco incluso, è evidente. Ma è anche vero che sono stati gli esecutivi di Angela Merkel a mettere fuori legge alcune organizzazioni dell’islam salafita come Ansaar International. Di più: primo fra i grandi paesi dell’UE, ad aprile del 2020 la Germania ha dichiarato illegale Hezbollah, superando l’ipocrisia in vigore nel resto d’Europa secondo cui solo le attività del braccio militare della milizia sciita libanese sono bandite. Ma puntare l’indice contro le organizzazioni di fanatici non basta: in Germania esiste un’intera galassia di associazioni e moschee legate a doppio filo al governo turco di Recep Tayyip Erdogan, un leader presentatosi al mondo come islamico moderato e presto diventato la testa d’ariete dell’Islam politico in Europa, intenzionato a usare le minoranze turche ospiti in Europa come una clava contro i paesi ospitanti. «Esiste il bisogno di definire con più chiarezza quali organizzazioni possono dialogare con le istituzioni: quelle legate all’Islam politico dovrebbero essere escluse», continua Rasumny. Così non accade in Germania dove lo scorso settembre il governo del Nord Reno-Vestfalia, il Land con 18 milioni di residenti e la più grande minoranza musulmana del paese, ha promosso una legge per riscrivere il programma dell’ora di religione islamica nelle scuole. Fra le organizzazioni consultate dal governo di Düsseldorf c’è anche la Ditib, il braccio religioso del governo turco che sovvenziona la costruzione di moschee in Europa e presso le quali manda imam che non predicano né l’integrazione né la tolleranza ma il settarismo e l’odio per l’Occidente.

Ancora più preoccupante è la circostanza che l’iniziativa sia partita da un’amministrazione conservatrice, quella guidata da Armin Laschet, il leader della Cdu che alle ultime elezioni legislative si è presentato come il delfino di Merkel. Resta poi da vedere quale sarà la politica estera del prossimo governo che, a parole, si vuole sostenitore della democrazia, pronto a raffreddare i rapporti con le “democrature” alla Putin e alla Erdogan. Sotto Angela Merkel la politica estera tedesca ha sofferto di strabismo: da un lato i suoi governi hanno affermato che la protezione di Israele da parte della Germania “è una ragione di Stato”. Nel 2019 il Bundestag ha anche approvato una risoluzione per vietare che gli antisionisti radicali del BDS possano usufruire di finanziamenti pubblici. Allo stesso tempo la Germania è sempre in prima fila per chiedere la riapertura del dossier per lo sviluppo del nucleare iraniano, un programma che non fa dormire sonni tranquilli soprattutto a Israele.

 

Angela e i Demoni, un saggio di Daniel Mosseri

Quali sfide dovrà affrontare la Germania nell’era post Merkel? Il giornalista Daniel Mosseri ricostruisce la vicenda biografica e politica della leader tedesca e fotografa successi e sfide ancora lontane dall’esser superate nella Germania che si prepara al dopo-Merkel, affidandosi alle considerazioni di due economisti, un diplomatico e la femminista più nota del Paese. «In queste pagine agevolissime e ricche di dati molto interessanti, si trova uno strumento utile per chi voglia farsi un’idea della complessità del tempo in cui viaggia oggi la locomotiva d’Europa, alle prese con la sfida ambientale, demografica, digitale e multiculturale. E questo rende il libro di Mosseri sulla Germania e su Merkel necessario, oltre che intrigante» scrive Rosanna Pugliese, corrispondente Ansa da Berlino, nella Prefazione. Daniel Mosseri – Livorno, classe 1972, giornalista – è laureato in scienze politiche, parla cinque lingue ed è specializzato in politica internazionale.

Angela e Demoni. La fine dell’era Merkel e le sfide della Germania di domani, Paesi Edizioni, pp. 128, euro 18,00.